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Dramma scritto dall'autore in Vienna d'ordine dell'Imperatrice Elisabetta, per doversi produrre in occasione di festeggiare il prossimo giorno di nome dell'augustissimo suo consorte Carlo VI, il dì 4 novembre 1740. Ma avendo egli cessato di vivere prima della preparata solennità, rimase occulto il dramma per lo spazio d'anni dieci: dopo i quali, mandato dall'autore a richiesta d'Augusto III, re di Polonia, fu nella corte di Dresda con reale magnificenza la prima volta rappresentato con musica dell'Hasse, alla presenza de' sovrani, nel carnevale dell'anno 1750.
PERSONAGGI
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REGOLO |
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MANLIO console. |
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ATTILIA figliuolo di Regolo. |
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PUBLIO figliuolo di Regolo. |
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BARCE nobile africana, schiava di Publio. |
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LICINIO tribuno della plebe, amante d'Attila. |
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AMILCARE ambasciatore di Cartagine, amante di Barce. |
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La scena si finge fuori di Roma nel contorno del tempio di Bellona.
ATTO PRIMO
SCENA I
Atrio nel palazzo suburbano del console Manlio. Spaziosa scala che introduce a' suoi appartamenti.
Attilia, Licinio dalla scala, littori e popolo.
Licinio - Sei tu, mia bella Attilia? Oh dei! confusa fra la plebe e i littori di Regolo la figlia qui trovar non credei.
Attilia - Su queste soglie ch'esca il console attendo. Io voglio almeno farlo arrossir. Più di riguardi ormai non è tempo, o Licinio. In lacci avvolto geme in Africa il padre; un lustro è scorso: nessun s'affanna a liberarlo; io sola piango in Roma e rammento i casi sui. Se taccio anch'io, chi parlerà per lui?
Licinio - Non dir così; saresti ingiusta. E dove, dov'è chi non sospiri di Regolo il ritorno, e che non creda un acquisto leggier l'Africa doma, se ha da costar tal cittadino a Roma? Di me non parlo; è padre tuo; t'adoro; lui duce appresi a trattar l'armi; e, quanto degno d'un cor romano in me traluce, ei m'inspirò.
Attilia - Fin ora però non veggo...
Licinio - E che potei privato fin or per lui? D'ambiziosa cura ardor non fu, che a procurar m'indusse la tribunizia potestà: cercai d'avvalorar con questa le istanze mie. Del popol tutto a nome tribuno or chiederò...
Attilia - Serbisi questo violento rimedio al caso estremo. Non risvegliam tumulti fra 'l popolo e il Senato. È troppo, il sai, della suprema autorità geloso ciascun di loro. Or questo, or quel n'abusa; e quel che chiede l'un, l'altro ricusa. V'è più placida via. So che a momenti da Cartagine in Roma un orator s'attende: ad ascoltarlo già s'adunano i padri di Bellona nel tempio; ivi proporre di Regolo il riscatto il console potria.
Licinio - Manlio! Ah rammenta che del tuo genitore emulo antico fu da' prim'anni. In lui fidarsi è vano: è Manlio un suo rival.
Attilia - Manlio è un romano; né armar vorrà la nimistà privata col pubblico poter. Lascia ch'io parli; udiam che dir saprà.
Licinio - Parlagli almeno, parlagli altrove; e non soffrir che mista qui fra 'l volgo ti trovi.
Attilia - Anzi vogl'io che appunto in questo stato mi vegga, si confonda; che in pubblico m'ascolti e mi risponda.
Licinio - Ei vien.
Attilia - Parti.
Licinio - Ah né pure d'uno sguardo mi degni.
Attilia - In quest'istante io son figlia, o Licinio, e non amante.
Licinio - Tu sei figlia, e lodo anch'io il pensier del genitore; ma ricordati, ben mio, qualche volta ancor di me. Non offendi, o mia speranza, la virtù del tuo bel core, rammentando la costanza di chi vive sol per te.
SCENA II
Attilia, Manlio dalla scala: littori e popolo.
Attilia - Manlio, per pochi istanti t'arresta, e m'odi.
Manlio - E questo loco, Attilia, parti degno di te?
Attilia - Non fu sin tanto che un padre invitto in libertà vantai; per la figlia d'un servo è degno assai.
Manlio - A che vieni?
Attilia - A che vengo! Ah sino a quando con stupor della terra, con vergogna di Roma, in vil servaggio Regolo ha da languir? Scorrono i giorni, gli anni giungono a lustri, e non si pensa ch'ei vive in servitù. Qual suo delitto meritò da' Romani questo barbaro obblio? Forse l'amore, onde i figli e se stesso alla patria pospose? Il grande, il giusto, l'incorrotto suo cor? L'illustre forse sua povertà ne' sommi gradi? Ah come chi quest'aure respira può Regolo obbliar! Qual parte in Roma non vi parla di lui? Le vie? per quelle ei passò trionfante. Il Foro? A noi provvide leggi ivi dettò. Le mura ove accorre il Senato? I suoi consigli là fabbricar più volte la pubblica salvezza. Entra ne' tempii, ascendi, o Manlio, il Campidoglio, e dimmi, chi gli adornò di tante insegne pellegrine puniche, siciliane e tarentine? Questi, questi littori, ch'or precedono a te; questa, che cingi, porpora consolar, Regolo ancora ebbe altre volte intorno: ed or si lascia morir fra' ceppi? Ed or non ha per lui che i pianti miei, ma senza prò versati? Oh padre! Oh Roma! Oh cittadini ingrati!
Manlio - Giusto, Attilia, è il tuo duol, ma non è giusta l'accusa tua. Di Regolo la sorte anche a noi fa pietà. Sappiam di lui qual faccia empio governo la barbara Cartago...
Attilia - Eh che Cartago la barbara non è. Cartago opprime un nemico crudel: Roma abbandona un fido cittadin. Quella rammenta quant'ei già l'oltraggiò; questa si scorda quant'ei sudò per lei. Vendica l'una i suoi rossori in lui; l'altra il punisce perché d'allòr le circondò la chioma. La barbara or qual è? Cartago o Roma?
Manlio - Ma che far si dovrebbe?
Attilia - Offra il Senato per lui cambio o riscatto all'africano ambasciador.
Manlio - Tu parli, Attilia, come figlia: a me conviene come console oprar. Se tal richiesta sia gloriosa a Roma, fa d'uopo esaminar. Chi alle catene la destra accostumò...
Attilia - Donde apprendesti così rigidi sensi?
Manlio - Io n'ho su gli occhi i domestici esempi.
Attilia - Eh dì che al padre sempre avverso tu fosti.
Manlio - È colpa mia, se vincer si lasciò? Se fra' nemici rimase prigionier?
Attilia - Pria d'esser vinto ei v'insegnò più volte...
Manlio - Attilia, ormai il Senato è raccolto: a me non lice qui trattenermi. Agli altri padri inspira massime meno austere. Il mio rigore forse puoi render vano; ch'io son console in Roma e non sovrano. Mi crederai crudele, dirai che fiero io sia; ma giudice fedele sempre il dolor non è. M'affliggono i tuoi pianti, ma non è colpa mia, se quel, che giova a tanti, solo è dannoso a te.
SCENA III
Attilia, poi Barce.
Attilia - Nulla dunque mi resta da' consoli a sperar. Questo è nemico; assente è l'altro. Al popolar soccorso rivolgersi convien. Padre infelice, da che incerte vicende la libertà, la vita tua dipende!
Barce - Attilia, Attilia.
Attilia - Onde l'affanno?
Barce - È giunto l'africano orator.
Attilia - Tanto trasporto la novella non merta.
Barce - Altra ne reco ben più grande.
Attilia - E qual è?
Barce - Regolo è seco.
Attilia - Il padre!
Barce - Il padre.
Attilia - Ah, Barce, t'ingannasti o m'inganni?
Barce - Io nol mirai, ma ognun...
Attilia - Publio...
SCENA IV
Publio, e dette.
Publio - Germana... Son fuor di me... Regolo è in Roma.
Attilia - Oh Dio! Che assalto di piacer! Guidami a lui. Dov'è? Corriam...
Publio - Non è ancor tempo. Insieme con l'orator nemico attende adesso che l'ammetta il Senato.
Attilia - Ove il vedesti?
Publio - Sai che questor degg'io gli stranieri oratori d'ospizio provveder. Sento che giunge l'orator di Cartago; ad incontrarlo m'affretto al porto: un africano io credo vedermi in faccia, e il genitor mi vedo.
Attilia - Che disse? che dicesti?
Publio - Ei su la ripa era già, quand'io giunsi, e il Campidoglio, ch'indi in parte si scopre, stava fisso a mirar. Nel ravvisarlo corsi gridando: Ah, caro padre! e volli la sua destra baciar. M'udì, si volse, ritrasse il piede, e, in quel sembiante austero con cui già fé tremar l'Africa doma, Non son padri mi disse i servi in Roma. Io replicar volea: ma, se raccolto fosse il Senato, e dove, chiedendo m'interruppe. Udillo, e senza parlar là volse i passi. Ad avvertirne il console io volai. Dov'è? Non veggo qui d'intorno i littori...
Barce - Ei di Bellona al tempio s'inviò.
Attilia - Servo ritorna dunque Regolo a noi?
Publio - Sì; ma di pace so che reca proposte: e che da lui dipende il suo destin.
Attilia - Chi sa se Roma quelle proposte accetterà.
Publio - Se vedi come Roma l'accoglie, tal dubbio non avrai. Di gioia insani son tutti, Attilia. Al popolo, che accorre, sono anguste le vie. L'un l'altro affretta; questo a quello l'addìta. Oh con quai nomi chiamar l'intesi! E a quanti molle osservai per tenerezza il ciglio! Che spettacolo, Attilia, al cor d'un figlio!
Attilia - Ah Licinio dov'è? Di lui si cerchi: imperfetta saria non divisa con lui la gioia mia. Goda con me, s'io godo, l'oggetto di mia fé, come penò con me quand'io penai. Provi felice il nodo in cui l'avvolse Amor: assai tremò fin or, sofferse assai.
SCENA V
Publio e Barce.
Publio - Addio, Barce vezzosa.
Barce - Odi. Non sai dell'orator cartaginese il nome?
Publio - Sì; Amilcare si appella.
Barce - È forse il figlio d'Annone?
Publio - Appunto.
Barce - (Ah l'idol mio!)
Publio - Tu cangi color! Perché? Fosse costui cagione del tuo rigor con me?
Barce - Signor, trovai tal pietà di mia sorte in Attilia ed in te, che non m'avvidi fin or di mie catene; e troppo ingrata sarei, se t'ingannassi: a te sincera tutto il cor scoprirò. Sappi...
Publio - T'accheta: mi prevedo funesta la tua sincerità. Fra le dolcezze di questo dì non mescoliam veleno; se d'altri sei, vo' dubitarne almeno. Se più felice oggetto occupa il tuo pensiero, taci, non dirmi il vero, lasciami nell'error. È pena, che avvelena, un barbaro sospetto; ma una certezza è pena che opprime affatto un cor.
SCENA VI
Barce.
Barce - Dunque è ver che a momenti il mio ben rivedrò? L'unico, il primo, onde m'accesi? Ah! che farai, cor mio, d'Amilcare all'aspetto, se al nome sol così mi balzi in petto? Sol può dir che sia contenta chi penò gran tempo in vano, dal suo ben chi fu lontano e lo torna a riveder. Si fan dolci in quel momento e le lagrime e i sospiri; le memorie de' martiri si convertono in piacer.
SCENA VII
Parte interna del tempio di Bellona; sedili pei senatori romani e per gli oratori stranieri. Littori che custodiscono diversi ingressi del tempio, da' quali veduta del Campidoglio e del Tevere
Manlio, Publio e senatori, indi Regolo ed Amilcare. Sèguito d'Africani e popolo fuori del tempio.
Manlio - Venga Regolo, e venga l'africano orator. Dunque i nemici braman la pace?
Publio - O de' cattivi almeno vogliono il cambio. A Regolo han commesso d'ottenerlo da voi. Se nulla ottiene, a pagar col suo sangue il rifiuto di Roma egli a Cartago è costretto a tornar. Giurollo, e vide pria di partir del minacciato scempio i funesti apparecchi. Ah! non sia vero che a sì barbare pene un tanto cittadin...
Manlio - T'accheta: ei viene.
Amilcare - (Regolo, a che t'arresti? È forse nuovo per te questo soggiorno?)
Regolo - (Penso qual ne partii, qual vi ritorno).
Amilcare - Di Cartago il Senato, bramoso di depor l'armi temute, al Senato di Roma invia salute. E, se Roma desia anche pace da lui, pace gl'invia.
Manlio - Siedi ed esponi. E tu l'antica sede, Regolo, vieni ad occupar.
Regolo - Ma questi chi sono?
Manlio - I padri.
Regolo - E tu chi sei?
Manlio - Conosci il console sì poco?
Regolo - E fra il console e i padri un servo ha loco?
Manlio - No; ma Roma si scorda il rigor di sue leggi per te, cui dee cento conquiste e cento.
Regolo - Se Roma se ne scorda, io gliel rammento.
Manlio - (Più rigida virtù chi vide mai?)
Publio - Né Publio sederà.
Regolo - Publio, che fai?
Publio - Compisco il mio dover: sorger degg'io dove il padre non siede.
Regolo - Ah tanto in Roma son cambiati i costumi! Il rammentarsi fra le pubbliche cure d'un privato dover, pria che tragitto in Africa io facessi, era delitto.
Publio - Ma...
Regolo - Siedi, Publio; e ad occupar quel loco più degnamente attendi.
Publio - Il mio rispetto innanzi al padre è naturale istinto.
Regolo - Il tuo padre morì, quando fu vinto.
Manlio - Parla, Amilcare, ormai.
Amilcare - Cartago elesse Regolo a farvi noto il suo desio. Ciò ch'ei dirà, dice Cartago ed io.
Manlio - Dunque Regolo parli.
Amilcare - Or ti rammenta che, se nulla otterrai, giurasti...
Regolo - Io compirò quanto giurai.
Manlio - (Di lui si tratta: oh come parlar saprà!)
Publio - (Numi di Roma, ah voi inspirate eloquenza a' labbri suoi!)
Regolo - La nemica Cartago, a patto che sia suo quant'or possiede, pace, o padri coscritti, a voi richiede. Se pace non si vuol, brama che almeno de' vostri e suoi prigioni termini un cambio il doloroso esiglio. Ricusar l'una e l'altro è il mio consiglio.
Amilcare - (Come!)
Publio - (Aimè!)
Manlio - (Son di sasso).
Regolo - Io della pace i danni a dimostrar non m'affatico; se tanto la desia, teme il nemico.
Manlio - Ma il cambio?
Regolo - Il cambio asconde frode per voi più perigliosa assai.
Amilcare - Regolo?
Regolo - Io compirò quanto giurai.
Publio - (Numi! il padre si perde).
Regolo - Il cambio offerto mille danni ravvolge; ma l'esempio è il peggior. L'onor di Roma, il valor, la costanza, la virtù militar, padri, è finita, se ha speme il vil di libertà, di vita. Qual prò che torni a Roma chi a Roma porterà l'orme sul tergo della sferza servil? chi l'armi ancora di sangue ostil digiune vivo depose, e per timor di morte del vincitor lo scherno soffrir si elesse? Oh vituperio eterno!
Manlio - Sia pur dannoso il cambio: a compensarne i danni basta Regolo sol.
Regolo - Manlio, t'inganni: Regolo è pur mortal.Sento ancor io l'ingiurie dell'etade. Utile a Roma già poco esser potrei: molto a Cartago ben lo saria la gioventù feroce, che per me rendereste. Ah sì gran fallo da voi non si commetta. Ebbe il migliore de' miei giorni la patria, abbia il nemico l'inutil resto. Il vil trionfo ottenga di vedermi spirar; ma vegga insieme che ne trionfa in vano, che di Regoli abbonda il suol romano.
Manlio - (Oh inudita costanza!)
Publio - (Oh coraggio funesto!)
Amilcare - (Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
Manlio - L'util non già dell'opre nostre oggetto, ma l'onesto esser dee; né onesto a Roma l'esser ingrata a un cittadin saria.
Regolo - Vuol Roma essermi grata? Ecco la via. Questi barbari, o padri, m'han creduto sì vil, che per timore io venissi a tradirvi. Ah questo oltraggio d'ogni strazio sofferto è più inumano. Vendicatemi, o padri; io fui romano. Armatevi, correte a sveller da' lor tempii l'aquile prigioniere. In sin che oppressa l'emula sia non deponete il brando. Fate ch'io là tornando legga il terror dell'ire vostre in fronte a' carnefici miei; che lieto io mora nell'osservar fra' miei respiri estremi come al nome di Roma Africa tremi.
Amilcare - (La maraviglia agghiaccia gli sdegni miei).
Publio - (Nessun risponde? Oh Dio! mi trema il cor).
Manlio - Domanda più maturo consiglio dubbio sì grande. A respirar dal nostro giusto stupor spazio bisogna. In breve il voler del Senato tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo l'assistenza de' numi pria di tutto a implorar.
Regolo - V'è dubbio ancora?
Manlio - Sì, Regolo: io non veggo se periglio maggiore è il non piegar del tuo consiglio al peso, o se maggior periglio è il perder chi sa dar sì gran consiglio. Tu, sprezzator di morte, dai per la patria il sangue; ma il figlio suo più forte perde la patria in te. Se te domandi esangue, molto da lei domandi: d'anime così grandi prodigo il Ciel non è.
SCENA VIII
Regolo, Publio, Amilcare, indi Attilia, Licinio e popolo.
Amilcare - In questa guisa adempie Regolo le promesse?
Regolo - Io vi promisi di ritornar; l'eseguirò.
Amilcare - Ma...
Attilia - Padre!
Licinio - Signor!
Attilia e Licinio - Su questa mano...
Regolo - Scostatevi. Io non sono, lode agli dei, libero ancora.
Attilia - Il cambio dunque si ricusò?
Regolo - Publio, ne guida al soggiorno prescritto ad Amilcare e a me.
Publio - Né tu verrai a' patri lari, al tuo ricetto antico?
Regolo - Non entra in Roma un messaggier nemico.
Licinio - Questa troppo severa legge non è per te.
Regolo - Saria tiranna, se non fosse per tutti.
Attilia - Io voglio almeno seguirti ovunque andrai.
Regolo - No; chiede il tempo, Attilia, altro pensier che molli affetti di figlia e genitor.
Attilia - Da quel che fosti, padre, ah perché così diverso adesso?
Regolo - La mia sorte è diversa; io son l'istesso. Non perdo la calma fra' ceppi o gli allori: non va sino all'alma la mia servitù. Combatte i rigori di sorte incostante in vario sembiante l'istessa virtù.
SCENA IX
Attilia sospesa, Amilcare partendo, Barce che sopraggiunge.
Barce - Amilcare!
Amilcare - Ah mia Barce! Ah di nuovo io ti perdo! Il cambio offerto Regolo dissuade.
Barce e Attilia - Oh stelle!
Amilcare - Addio: Publio seguir degg'io. Mia vita, oh quanto, quanto ho da dirti!
Barce - E nulla dici intanto.
Amilcare - Ah! se ancor mia tu sei, come trovar sì poco sai negli sguardi miei quel ch'io non posso dir! Io, che nel tuo bel foco sempre fedel m'accendo, mille segreti intendo, cara, da un tuo sospir.
SCENA X
Attilia e Barce.
Attilia - Chi creduto l'avrebbe! Il padre istesso congiura a' danni suoi.
Barce - Già che il Senato non decise fin or, molto ti resta, Attilia, onde sperar. Corri, t'adopra, parla, pria che di nuovo si raccolgano i padri. Adesso è il tempo di porre in uso e l'eloquenza e l'arte. Or l'amor de' congiunti, or la fé degli amici, or de' Romani giova implorar l'aita in ogni loco.
Attilia - Tutto farò; ma quel, ch'io spero, è poco. Mi parea del parto in seno chiara l'onda, il ciel sereno; ma tempesta più funesta mi respinge in mezzo al mar. M'avvilisco, m'abbandono; e son degna di perdono se, pensando a chi la desta, incomincio a disperar.
SCENA XI
Barce.
Barce - Che barbaro destino sarebbe il mio, se Amilcare dovesse pur di nuovo a Cartago senza me ritornar! Solo in pensarlo mi sento... Ah no; speriam più tosto. Avremo sempre tempo a penar. Non è prudenza, ma follia de' mortali l'arte crudel di presagirsi i mali. Sempre è maggior del vero l'idea d'una sventura al credulo pensiero dipinta dal timor. Chi stolto il mal figura, affretta il proprio affanno, ed assicura un danno, quando è dubbioso ancor.
FINE DELL'ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
SCENA I
Logge a vista di Roma nel palazzo suburbano destinato agli ambasciatori cartaginesi.
Regolo e Publio.
Regolo - Publio, tu qui! Si tratta della gloria di Roma, dell'onor mio, del pubblico riposo, e in Senato non sei?
Publio - Raccolto ancora, signor, non è.
Regolo - Va, non tardar; sostieni fra i padri il voto mio: mostrati degno dell'origine tua.
Publio - Come! e m'imponi che a fabbricar m'adopri io stesso il danno tuo?
Regolo - Non è mio danno quel che giova alla patria.
Publio - Ah di te stesso, signore, abbi pietà.
Regolo - Publio, tu stimi dunque un furore il mio? Credi ch'io solo, fra ciò che vive, odii me stesso? Oh quanto t'inganni! Al par d'ogni altro bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo trovo sol nella colpa, e quello io trovo nella sola virtù. Colpa sarebbe della patria col danno ricuperar la libertà smarrita; ond'è mio mal la libertà, la vita: virtù col proprio sangue è della patria assicurar la sorte; ond'è mio ben la servitù, la morte.
Publio - Pur la patria non è...
Regolo - La patria è un tutto, di cui siam parti. Al cittadino è fallo considerar se stesso separato da lei. L'utile o il danno, ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova o nuoce alla sua patria, a cui di tutto è debitor. Quando i sudori e il sangue sparge per lei, nulla del proprio ei dona; rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse, l'educò, lo nudrì. Con le sue leggi dagl'insulti domestici il difende, dagli esterni con l'armi. Ella gli presta nome, grado ed onor: ne premia il merto; ne vendica le offese; e madre amante a fabbricar s'affanna la sua felicità, per quanto lice al destin de' mortali esser felice. Han tanti doni, è vero, il peso lor. Chi ne ricusa il peso, rinunci al benefizio; a far si vada d'inospite foreste mendìco abitatore; e là, di poche misere ghiande e d'un covil contento, viva libero e solo a suo talento.
Publio - Adoro i detti tuoi. L'alma convinci, ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti la natura repugna. Al fin son figlio, non lo posso obbliar.
Regolo - Scusa infelice per chi nacque romano. Erano padri Bruto, Manlio, Virginio...
Publio - È ver; ma questa troppo eroica costanza sol fra' padri restò. Figlio non vanta Roma fin or, che a proccurar giungesse del genitor lo scempio.
Regolo - Dunque aspira all'onor del primo esempio. Va.
Publio - Deh...
Regolo - Non più. Della mia sorte attendo la notizia da te.
Publio - Troppo pretendi, troppo, o signor.
Regolo - Mi vuoi straniero, o padre? Se stranier, non posporre l'util di Roma al mio; se padre, il cenno rispetta, e parti.
Publio - Ah se mirar potessi i moti del cor mio, rigido meno forse con me saresti.
Regolo - Or dal tuo core prove io vo' di costanza e non d'amore.
Publio - Ah, se provar mi vuoi, chiedimi, o padre, il sangue; e tutto a' piedi tuoi, padre, lo verserò. Ma che un tuo figlio istesso debba volerti oppresso? Gran genitor, perdona, tanta virtù non ho.
SCENA II
Regolo, poi Manlio.
Regolo - Il gran punto s'appressa, ed io pavento che vacillino i padri. Ah voi di Roma deità protettrici, a lor più degni sensi inspirate.
Manlio - A custodir l'ingresso rimangano i littori; e alcun non osi qui penetrar.
Regolo - (Manlio! A che viene?)
Manlio - Ah lascia che al sen ti stringa, invitto eroe.
Regolo - Che tenti! Un console...
Manlio - Io nol sono Regolo, adesso: un uom son io che adora la tua virtù, la tua costanza; un grande emulo tuo, che a dichiarar si viene vinto da te; che, confessando ingiusto l'avverso genio antico, chiede l'onor di diventarti amico.
Regolo - Dell'alme generose solito stil. Più le abbattute piante non urta il vento, o le solleva. Io deggio così nobile acquisto alla mia servitù.
Manlio - Sì, questa appieno qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande, com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma vincitor de' nemici spesso tornasti; or vincitor ritorni di te, della fortuna. I lauri tuoi mossero invidia in me; le tue catene destan rispetto. Allora un eroe, lo confesso, Regolo mi parea; ma un nume adesso.
Regolo - Basta, basta, signor: la più severa misurata virtù tentan le lodi in un labbro sì degno. Io ti son grato che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia gli ultimi giorni miei.
Manlio - Gli ultimi giorni! Conservarti io pretendo lungamente alla patria; e, affinché sia in tuo favor l'offerto cambio ammesso, tutto in uso porrò.
Regolo - Così cominci, Manlio, ad essermi amico? E che faresti, se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto del mio rossor tu mi defraudi. A Roma io non venni a mostrar le mie catene per destarla a pietà: venni a salvarla dal rischio d'un'offerta, che accettar non si dee. Se non puoi darmi altri pegni d'amor, torna ad odiarmi.
Manlio - Ma il ricusato cambio produrria la tua morte.
Regolo - E questo nome sì terribil risuona nell'orecchie di Manlio! Io non imparo oggi che son mortale. Altro il nemico non mi torrà che quel che tormi in breve dee la natura; e volontario dono sarà così quel, che saria fra poco necessario tributo. Il mondo apprenda ch'io vissi sol per la mia patria; e, quando viver più non potei, resi almen la mia morte utile a lei.
Manlio - Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo che tai figli produci! E chi potrebbe non amarti, signor?
Regolo - Se amar mi vuoi, amami da romano. Eccoti i patti della nostra amistà. Facciamo entrambi un sacrifizio a Roma; io della vita, tu dell'amico. È ben ragion che costi della patria il vantaggio qualche pena anche a te. Va; ma prometti che de' consigli miei tu nel Senato ti farai difensore. A questa legge sola di Manlio io l'amicizia accetto. Che rispondi, signor?
Manlio - Sì, lo prometto.
Regolo - Or de' propizi numi in Manlio amico io riconosco un dono.
Manlio - Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono!
Regolo - Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti forse saranno i padri. Alla tua fede della patria il decoro, la mia pace abbandono e l'onor mio.
Manlio - Addio, gloria del Tebro.
Regolo - Amico, addio.
Manlio - Oh qual fiamma di gloria, d'onore scorrer sento per tutte le vene, alma grande, parlando con te! No, non vive sì timido core, che in udirti con quelle catene non cambiasse la sorte d'un re.
SCENA III
Regolo e Licinio.
Regolo - A respirar comincio: i miei disegni il fausto Ciel seconda.
Licinio - Al fin ritorno con più contento a rivederti.
Regolo - E donde tanta gioia, o Licinio?
Licinio - Ho il cor ripieno di felici speranze. In fino ad ora per te sudai.
Regolo - Per me!
Licinio - Sì. Mi credesti forse ingrato così, ch'io mi scordassi gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto mi rammento, signor. Tu sol mi fosti duce, maestro e padre. I primi passi mossi, te condottiero, per le strade d'onor: tu mi rendesti...
Regolo - Al fine, in mio favor, dì, che facesti?
Licinio - Difesi la tua vita e la tua libertà.
Regolo - Come?
Licinio - All'ingresso del tempio, ove il Senato or si raccoglie, attesi i padri, e ad uno ad un li trassi nel desio di salvarti.
Regolo - (Oh dei, che sento!) E tu...
Licinio - Solo io non fui. Non si defraudi la lode al merto. Io feci assai, ma fece Attilia più di me.
Regolo - Chi?
Licinio - Attilia. In Roma figlia non v'è d'un genitor più amante. Come parlò! Che disse! Quanti affetti destò! Come compose il dolor col decoro! In quanti modi rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
Regolo - E i padri?
Licinio - E chi resiste agli assalti d'Attilia? Eccola: osserva come ride in quel volto la novella speranza.
SCENA IV
Attilia, e detti.
Attilia - Amato padre, pure una volta...
Regolo - E ardisci ancor venirmi innanzi? Ah non contai te fin ad or fra' miei nemici.
Attilia - Io, padre, io tua nemica!
Regolo - E tal non è chi folle s'oppone a' miei consigli?
Attilia - Ah di giovarti dunque il desio d'inimicizia è prova?
Regolo - Che sai tu quel che nuoce o quel che giova? Delle pubbliche cure chi a parte ti chiamò? Della mia sorte chi ti fé protettrice? Onde...
Licinio - Ah signore, troppo...
Regolo - Parla Licinio! Assai tacendo meglio si difendea; pareva almeno pentimento il silenzio. Eterni dei! Una figlia!... un roman!
Attilia - Perché son figlia...
Licinio - Perché roman son io, credei che oppormi al tuo fato inumano...
Regolo - Taci: non è romano chi una viltà consiglia. Taci: non è mia figlia chi più virtù non ha. Or sì de' lacci il peso per vostra colpa io sento; or sì la mia rammento perduta libertà.
SCENA V
Attilia e Licinio.
Attilia - Ma dì; credi, o Licinio, che mai di me nascesse più sfortunata donna? Amare un padre, affannarsi a suo prò, mostrar per lui di tenera pietade il cor trafitto saria merito ad altri; è a me delitto.
Licinio - No; consolati, Attilia, e non pentirti dell'opera pietosa. Altro richiede il dover nostro, ed altro di Regolo il dover. Se gloria è a lui della vita il disprezzo, a noi sarebbe empietà non salvarlo. Al fin vedrai che grato ei ci sarà. Non ti spaventi lo sdegno suo. Spesso l'infermo accusa di crudel, d'inumano quella medica man, che lo risana.
Attilia - Que' rimproveri acerbi mi trafiggono il cor: non ho costanza per soffrir l'ire sue.
Licinio - Ma dì: vorresti pria d'un tal genitor vederti priva?
Attilia - Ah questo no: mi sia sdegnato, e viva.
Licinio - Vivrà. Cessi quel pianto: tornatevi di nuovo, begli occhi, a serenar. Se veggo, oh Dio! mestizia in voi, perdo coraggio anch'io. Da voi, cari lumi, dipende il mio stato; voi siete i miei numi, voi siete il mio fato: a vostro talento mi sento cangiar. Ardir m'inspirate, se lieti splendete; se torbidi siete, mi fate tremar.
SCENA VI
Attilia.
Attilia - Ah che pur troppo è ver! non han misura della cieca fortuna i favori e gli sdegni. O de' suoi doni è prodiga all'eccesso, o affligge un cor fin che nol vegga oppresso. Or l'infelice oggetto son io dell'ire sue. Mi veggo intorno di nembi il ciel ripieno; e chi sa quanti strali avranno in seno. Se più fulmini vi sono, ecco il petto, avversi dei: me ferite, io vi perdono; ma salvate il genitor. Un'immagine di voi in quell'alma rispettate; un esempio a noi lasciate di costanza e di valor.
SCENA VII
Galleria nel palazzo medesimo
Regolo.
Regolo - Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo moto incognito a te? Sfidasti ardito le tempeste del mar, l'ire di Marte, d'Africa i mostri orrendi, ed or tremando il tuo destino attendi! Ah, n'hai ragion: mai non si vide ancora in periglio sì grande la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei, non è dell'alme nostre un affetto tiranno? Al par d'ogni altro domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili questo è il linguaggio. Inutilmente nacque chi sol vive a se stesso: e sol da questo nobile affetto ad obbliar s'impara sé per altrui. Quanto ha di ben la terra, alla gloria si dee. Vendica questa l'umanità del vergognoso stato in cui saria senza il desio d'onore; toglie il senso al dolore, lo spavento a' perigli, alla morte il terror; dilata i regni, le città custodisce; alletta, aduna seguaci alla virtù; cangia in soavi i feroci costumi, e rende l'uomo imitator de' numi. Per questa... Aimè! Publio ritorna, e parmi che timido s'avanzi. E ben, che rechi? Ha deciso il Senato? qual è la sorte mia?
SCENA VIII
Publio, e detto.
Publio - Signor... (Che pena per un figlio è mai questa!)
Regolo - E taci?
Publio - Oh dei! Esser muto vorrei.
Regolo - Parla.
Publio - Ogni offerta il Senato ricusa.
Regolo - Ah dunque ha vinto il fortunato al fin genio romano! Grazie agli dei; non ho vissuto in vano. Amilcare si cerchi. Altro non resta che far su queste arene: la grand'opra compii, partir conviene.
Publio - Padre infelice!
Regolo - Ed infelice appelli chi poté, fin che visse, alla patria giovar?
Publio - La patria adoro, piango i tuoi lacci.
Regolo - È servitù la vita; ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole, pianger, Publio, dovria la sorte di chi nasce, e non la mia.
Publio - Di quei barbari, o padre, l'empio furor ti priverà di vita.
Regolo - E la mia servitù sarà finita. Addio. Non mi seguir.
Publio - Da me ricusi gli ultimi ancor pietosi uffizi?
Regolo - Io voglio altro da te. Mentre a partir m'affretto, a trattener rimanti la sconsolata Attilia. Il suo dolore funesterebbe il mio trionfo. Assai tenera fu per me. Se forse eccede, compatiscila, o Publio. Al fin da lei una viril costanza pretender non si può. Tu la consiglia; d'inspirarle proccura con l'esempio fortezza: la reggi, la consola; e seco adempi ogni uffizio di padre. A te la figlia, te confido a te stesso; e spero... Ah veggo che indebolir ti vuoi. Maggior costanza in te credei: l'avrò creduto in vano? Publio, ah no: sei mio figlio, e sei romano. Non tradir la bella speme, che di te donasti a noi: sul cammin de' grandi eroi incomincia a comparir. Fa ch'io lasci un degno erede degli affetti del mio core; che di te senza rossore io mi possa sovvenir.
SCENA IX
Publio, poi Attilio e Barce, indi Licinio ed Amilcare, l'uno dopo l'altro, e da diverse parti.
Publio - Ah sì, Publio, coraggio: il passo è forte, ma vincerti convien. Lo chiede il sangue, che hai nelle vene; il grand'esempio il chiede, che su gli occhi ti sta. Cedesti a' primi impeti di natura; or meglio eleggi; il padre imìta, e l'error tuo correggi.
Attilia - Ed è vero, o german?
Barce - Publio, ed è vero?
Publio - Sì: decise il Senato; Regolo partirà.
Attilia - Come!
Barce - Che dici!
Attilia - Dunque ognun mi tradì?
Barce - Dunque...
Publio - Or non giova...
Barce - Amilcare, pietà.
Attilia - Licinio, aiuto.
Amilcare - Più speranza non v'è.
Licinio - Tutto è perduto.
Attilia - Dov'è Regolo? Io voglio almen seco partir.
Publio - Ferma; l'eccesso del tuo dolor l'offenderebbe.
Attilia - E speri impedirmi così?
Publio - Spero che Attilia torni al fine in se stessa, e si rammenti che a lei non è permesso...
Attilia - Sol che son figlia io mi rammento adesso. Lasciami.
Publio - Non sperarlo.
Attilia - Ah parte intanto il genitor!
Barce - Non dubitar ch'ei parta, finché Amilcare è qui.
Attilia - Chi mi consiglia? chi mi soccorre? Amilcare?
Amilcare - Io mi perdo fra l'ira e lo stupor.
Attilia - Licinio?
Licinio - Ancora dal colpo inaspettato respirar non poss'io.
Attilia - Publio?
Publio - Ah germana, più valor, più costanza. Il fato avverso come si soffra il genitor ci addìta. Non è degno di lui chi non l'imìta.
Attilia - E tu parli così! tu, che dovresti i miei trasporti accompagnar gemendo! Io non t'intendo, o Publio.
Amilcare - Ed io l'intendo. Barce è la fiamma sua: Barce non parte, se Regolo non resta; ecco la vera cagion del suo coraggio.
Publio - (Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!)
Amilcare - Forse, affinché il Senato non accettasse il cambio, ei pose in opra tutta l'arte e l'ingegno.
Publio - Il dubbio in ver d'un africano è degno.
Amilcare - E pur...
Publio - Taci, e m'ascolta. Sai che l'arbitro io sono della sorte di Barce?
Amilcare - Il so. L'ottenne già dal Senato in dono la madre tua: questa cedendo al fato, signor di lei tu rimanesti.
Publio - Or odi qual uso io fo del mio dominio. Amai Barce più della vita, ma non quanto l'onor. So che un tuo pari creder nol può; ma toglierò ben io di sì vili sospetti ogni pretesto alla calunnia altrui. Barce, liberi sei; parti con lui.
Barce - Numi! Ed è ver?
Amilcare - D'una virtù sì rara...
Publio - Come s'ama fra noi, barbaro, impara.
SCENA X
Licinio, Attilia, Barce, Amilcare.
Attilia - Vedi il crudel come mi lascia!
Barce - Udisti, come Publio parlò?
Attilia - Tu non rispondi!
Barce - Tu non m'odi, idol mio!
Amilcare - Addio, Barce; m'attendi.
Licinio - Attilia, addio.
Attilia e Barce - Dove?
Licinio - A salvarti il padre.
Amilcare - Regolo a conservar.
Attilia - Ma per qual via?
Barce - Ma come?
Licinio - A' mali estremi diasi estremo rimedio.
Amilcare - Abbia rivali nella virtù questo romano orgoglio.
Attilia - Esser teco vogl'io.
Barce - Seguirti io voglio.
Licinio - No; per te tremerei.
Amilcare - No; rimaner tu dèi.
Barce - Né vuoi spiegarti?
Attilia - Né vuoi ch'io sappia almen...
Licinio - Tutto fra poco saprai.
Amilcare - Fidati a me.
Licinio - Regolo in Roma si trattenga, o si mora.
Amilcare - Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora. Se minore è in noi l'orgoglio, la virtù non è minore; né per noi la via d'onore è un incognito sentier. Lungi ancor dal Campidoglio vi son alme a queste uguali; pur del resto de' mortali han gli dei qualche pensier.
SCENA XI
Attilia e Barce.
Attilia - Barce!
Barce - Attilia!
Attilia - Che dici?
Barce - Che possiamo sperar?
Attilia - Non so. Tumulti certo a destar corre Licinio; e questi esser ponno funesti alla patria ed a lui, senza che il padre per ciò si salvi.
Barce - Amilcare sorpreso dal grand'atto di Publio e punto insieme da' rimproveri suoi, men generoso esser non vuol di lui. Chi sa che tenta e a qual rischio s'espone?
Attilia - Il mio Licinio deh secondate, o dei!
Barce - Lo sposo mio, numi, assistete!
Attilia - Io non ho fibra in seno, che non mi tremi.
Barce - Attilia, non dobbiamo avvilirci. Al fin più chiaro è adesso il ciel di quel che fu; si vede pur di speranza un raggio.
Attilia - Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio. Non è la mia speranza luce di ciel sereno; di torbido baleno è languido splendor: splendor, che in lontananza nel comparir si cela; che il rischio, oh Dio! mi svela, ma non lo fa minor.
SCENA XII
Barce.
Barce - Rassicurar proccuro l'alma d'Attilia oppressa, ardir vo consigliando, e tremo io stessa. Ebbi assai più coraggio quando meno sperai. La tema incerta solo allor m'affliggea d'un mal futuro; or di perder pavento un ben sicuro. S'espone a perdersi nel mare infido chi l'onde instabili solcando va. Ma quel sommergersi vicino al lido è troppo barbara fatalità.
FINE DELL'ATTO SECONDO
ATTO TERZO
SCENA I
Sala terrena corrispondente ai giardini.
Regolo, guardie africane, poi Manlio.
Regolo - Ma che si fa? Non seppe forse ancor del Senato Amilcare il voler? Dov'è? Si trovi; partir convien. Qui che sperar per lui, per me non v'è più che bramar. Diventa colpa ad entrambi or la dimora. Ah vieni, vieni, amico, al mio seno. Era in periglio senza te la mia gloria; i ceppi miei per te conservo; a te si deve il frutto della mia schiavitù.
Manlio - Sì; ma tu parti; sì; ma noi ti perdiam.
Regolo - Mi perdereste, s'io non partissi.
Manlio - Ah perché mai sì tardi incomincio ad amarti! Altri fin ora, Regolo, non avesti pegni dell'amor mio, se non funesti.
Regolo - Pretenderne maggiori da un vero amico io non potei; ma pure se il generoso Manlio altri vuol darne, altri ne chiederò.
Manlio - Parla.
Regolo - Compìto ogni dover di cittadino, al fine mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma due figli, il sai; Publio ed Attilia: e questi son del mio cor, dopo la patria, il primo, il più tenero affetto. In lor traluce indole non volgar; ma sono ancora piante immature, e di cultor prudente abbisognano entrambi. Il Ciel non volle che l'opera io compissi. Ah tu ne prendi per me pietosa cura; tu di lor con usura la perdita compensi. Al tuo bel core debbano e a' tuoi consigli la gloria il padre, e l'assistenza i figli.
Manlio - Sì, tel prometto: i preziosi germi custodirò geloso. Avranno un padre, se non degno così, tenero almeno il par di te. Della virtù romana io lor le tracce additerò. Né molto sudor mi costerà. Basta a quell'alme, di bel desio già per natura accese, l'istoria udir delle paterne imprese.
Regolo - Or sì più non mi resta...
SCENA II
Publio, e detti.
Publio - Manlio! Padre!
Regolo - Che avvenne?
Publio - Roma tutta è in tumulto: il popol freme; non si vuol che tu parta.
Regolo - E sarà vero che un vergognoso cambio possa Roma bramar?
Publio - No, cambio o pace Roma non vuol; vuol che tu resti.
Regolo - Io! Come? E la promessa? e il giuramento?
Publio - Ognuno grida che fé non dessi a perfidi serbar.
Regolo - Dunque un delitto scusa è dell'altro. E chi sarà più reo, se l'esempio è discolpa?
Publio - Or si raduna degli àuguri il collegio: ivi deciso il gran dubbio esser deve.
Regolo - Uopo di questo oracolo io non ho. So che promisi; voglio partir. Potea della pace o del cambio Roma deliberar: del mio ritorno a me tocca il pensier. Pubblico quello, questo è privato affar. Non son qual fui; né Roma ha dritto alcun sui servi altrui.
Publio - Degli àuguri il decreto s'attenda almen.
Regolo - No; se l'attendo, approvo la loro autorità. Custodi, al porto. Amico, addio.
Manlio - No, Regolo; se vai fra la plebe commossa, a viva forza può trattenerti; e tu, se ciò succede, tutta Roma fai rea di poca fede.
Regolo - Dunque mancar degg'io?...
Manlio - No; andrai; ma lascia che quest'impeto io vada prima a calmar. Ne sederà l'ardore la consolare autorità.
Regolo - Rimango, Manlio, su la tua fé: ma...
Manlio - Basta; intendo. La tua gloria desio, e conosco il tuo cor: fidati al mio. Fidati pur; rammento che nacqui anch'io romano: al par di te mi sento fiamme di gloria in sen. Mi niega, è ver, la sorte le illustri tue ritorte; ma, se le bramo in vano, so meritarle almen.
SCENA III
Regolo e Publio.
Regolo - E tanto or costa in Roma, tanta or si suda a conservar la fede! Dunque... Ah Publio! e tu resti? E sì tranquillo tutto lasci all'amico d'assistermi l'onor? Corri; proccura tu ancor la mia partenza. Esser vorrei di sì gran benefizio debitore ad un figlio.
Publio - Ah padre amato, ubbidirò; ma...
Regolo - Che? Sospiri! Un segno quel sospiro saria d'animo oppresso?
Publio - Sì, lo confesso, morir mi sento; ma questo istesso crudel tormento è il più bel merito del mio valor. Qual sacrifizio, padre, farei, se fosse il vincere gli affetti miei opra sì facile per questo cor?
SCENA IV
Regolo e Amilcare.
Amilcare - Regolo, al fin...
Regolo - Senza che parli, intendo già le querele tue. Non ti sgomenti il moto popolar: Regolo in Roma vivo non resterà.
Amilcare - Non so di quali moti mi vai parlando. Io querelarmi teco non voglio. A sostenerti io venni che solo al Tebro in riva non nascono gli eroi, che vi sono alme grandi anche fra noi.
Regolo - Sia. Non è questo il tempo d'inutili contese. I tuoi raccogli, t'appresta alla partenza.
Amilcare - No. Pria m'odi, e rispondi.
Regolo - (Oh sofferenza!)
Amilcare - È gloria l'esser grato?
Regolo - L'esser grato è dover: ma già sì poco questo dover s'adempie, ch'oggi è gloria il compirlo.
Amilcare - E se il compirlo costasse un gran periglio?
Regolo - Ha il merto allora d'un'illustre virtù.
Amilcare - Dunque non puoi questo merto negarmi. Odi. Mi rende, del proprio onor geloso, la mia Barce il tuo figlio, e pur l'adora: io generoso ancora vengo il padre a salvargli, e pur m'espongo di Cartago al furor.
Regolo - Tu vuoi salvarmi!
Amilcare - Io.
Regolo - Come?
Amilcare - A te lasciando agio a fuggir. Questi custodi ad arte allontanar farò. Tu cauto in Roma celati sol fin tanto che senza te con simulato sdegno quindi l'ancore io sciolga.
Regolo - (Barbaro!)
Amilcare - E ben, che dici? ti sorprende l'offerta.
Regolo - Assai.
Amilcare - L'avresti aspettata da me?
Regolo - No.
Amilcare - Pur la sorte non ho d'esser roman.
Regolo - Si vede.
Amilcare - Andate, custodi...
Regolo - Alcun non parta.
Amilcare - Perché?
Regolo - Grato io ti sono del buon voler; ma verrò teco.
Amilcare - E sprezzi la mia pietà?
Regolo - No; ti compiango. Ignori che sia virtù. Mostrar virtù pretendi, e me, la patria tua, te stesso offendi.
Amilcare - Io!
Regolo - Sì. Come disponi della mia libertà? Servo son io di Cartago, o di te?
Amilcare - Non è tuo peso l'esaminar se il benefizio...
Regolo - È grande il benefizio in ver! Rendermi reo, profugo, mentitor...
Amilcare - Ma qui si tratta del viver tuo. Sai che supplizi atroci Cartago t'apprestò? Sai quale scempio là si farà di te?
Regolo - Ma tu conosci, Amilcare, i Romani? Sai che vivon d'onor? che questo solo è sprone all'opre lor, misura, oggetto? Senza cangiar d'aspetto qui s'impara a morir; qui si deride, pur che gloria produca, ogni tormento; e la sola viltà qui fa spavento.
Amilcare - Magnifiche parole, belle ad udir; ma inopportuno è meco quel fastoso linguaggio. Io so che a tutti la vita è cara, e che tu stesso...
Regolo - Ah troppo di mia pazienza abusi. I legni appresta, raduna i tuoi seguaci, compisci il tuo dover, barbaro, e taci.
Amilcare - Fa pur l'intrepido, m'insulta audace, chiama pur barbara la mia pietà. Sul Tebro Amilcare t'ascolta e tace; ma presto in Africa risponderà.
SCENA V
Regolo e Attilia.
Regolo - E Publio non ritorna! e Manlio... Aimè! Che rechi mai sì lieta, sì frettolosa, Attilia?
Attilia - Il nostro fato già dipende da te; già cambio o pace, fida a' consigli tuoi, Roma non vuol; ma rimaner tu puoi.
Regolo - Sì, col rossor...
Attilia - No; su tal punto il sacro Senato pronunciò. L'arbitro sei di partir, di restar. Giurasti in ceppi; né obbligar può se stesso chi libero non è.
Regolo - Libero è sempre chi sa morir. La sua viltà confessa chi l'altrui forza accusa. Io giurai perché volli; voglio partir perché giurai.
SCENA VI
Publio, e detti.
Publio - Ma in vano, signor, lo speri.
Regolo - E chi potrà vietarlo?
Publio - Tutto il popolo, o padre: è affatto ormai incapace di fren. Per impedirti il passaggio alle navi ognun s'affretta precipitando al porto; e son di Roma già l'altre vie deserte.
Regolo - E Manlio?
Publio - È il solo che ardisca opporsi ancora al voto universal. Prega, minaccia; ma tutto inutilmente. Alcun non l'ode, non l'ubbidisce alcun. Cresce a momenti la furia popolar. Già su le destre ai pallidi littori treman le scuri; e non ritrova ormai in tumulto sì fiero esecutori il consolare impero.
Regolo - Attilia, addio: Publio, mi siegui.
Attilia - E dove?
Regolo - A soccorrer l'amico; il suo delitto a rinfacciare a Roma; a conservarmi l'onor di mie catene; a partire, o a spirar su queste arene.
Attilia - Ah padre! ah no! Se tu mi lasci...
Regolo - Attilia, molto al nome di figlia, al sesso ed all'età fin or donai: basta; si pianse assai. Per involarmi d'un gran trionfo il vanto non congiuri con Roma anche il tuo pianto.
Attilia - Ah tal pena è per me...
Regolo - Per te gran pena è il perdermi, lo so. Ma tanto costa l'onor d'esser romana.
Attilia - Ogni altri prova son pronta...
Regolo - E qual? Co' tuoi consigli andrai forse fra i padri a regolar di Roma in Senato il destin? Con l'elmo in fronte forse i nemici a debellar pugnando fra l'armi suderai? Qualche disastro se a soffrir per la patria atta non sei senza viltà, dì, che farai per lei?
Attilia - È ver. Ma tal costanza...
Regolo - È difficil virtù: ma Attilia al fine è mia figlia, e l'avrà.
Attilia - Sì, quanto io possa, gran genitor, t'imiterò. Ma... oh Dio! Tu mi lasci sdegnato: io perdei l'amor tuo.
Regolo - No, figlia; io t'amo, io sdegnato non son. Prendine in pegno questo amplesso da me. Ma questo amplesso costanza, onor, non debolezza inspiri.
Attilia - Ah sei padre, mi lasci, e non sospiri!
Regolo - Io son padre, e nol sarei se lasciassi a' figli miei un esempio di viltà. Come ogni altro ho core in petto; ma vassallo è in me l'affetto; ma tiranno in voi si fa.
SCENA VII
Attilia, poi Barce.
Attilia - Su, costanza, o mio cor. Deboli affetti, sgombrate da quest'alma; inaridite ormai su queste ciglia, lagrime imbelli. Assai si pianse; assai si palpitò. La mia virtù natia sorga al paterno sdegno; ed Attilia non sia il ramo sol di sì gran pianta indegno.
Barce - Attilia, è dunque ver? Dunque a dispetto del popol, del Senato, degli àuguri, di noi, del mondo intero Regolo vuol partir?
Attilia - Sì.
Barce - Ma che insano furor?
Attilia - Più di rispetto, Barce, agli eroi.
Barce - Come! del padre approvi l'ostinato pensier?
Attilia - Del padre adoro la costante virtù.
Barce - Virtù che a' ceppi, che all'ire altrui, che a vergognosa morte certamente dovrà...
Attilia - Taci. Quei ceppi, quell'ire, quel morir del padre mio saran trionfi.
Barce - E tu n'esulti?
Attilia - (Oh Dio!)
Barce - Capir non so...
Attilia - Non può capir chi nacque in barbaro terren per sua sventura come al paterno vanto goda una figlia.
Barce - E perché piangi intanto?
Attilia - Vuol tornar la calma in seno quando in lagrime si scioglie quel dolor che la turbò: come torna il ciel sereno, quel vapor, che i rai ci toglie, quando in pioggia si cangiò.
SCENA VIII
Barce.
Barce - Che strane idee questa produce in Roma avidità di lode! Invidia i ceppi Manlio del suo rival: Regolo abborre la pubblica pietà: la figlia esulta nello scempio del padre! E Publio... Ah questo è caso in ver che ogni credenza eccede: e Publio ebro d'onor m'ama e mi cede! Ceder l'amato oggetto, né spargere un sospiro, sarà virtù; l'ammiro, ma non la curo in me. Di gloria un'ombra vana in Roma è il solo affetto; ma l'alma mia romana, lode agli dei, non è.
SCENA IX
Portici magnifici sulle rive del Tevere. Navi pronte nel fiume per l'imbarco di Regolo. Ponte che conduce alla più vicina di quelle. Popolo numeroso, che impedisce il passaggio alle navi. Africani sulle medesime. Littori con console.
Manlio e Licinio.
Licinio - No, che Regolo parta Roma non vuole.
Manlio - Ed il Senato ed io non siam parte di Roma?
Licinio - Il popol tutto è la maggior.
Manlio - Non la più sana.
Licinio - Almeno la men crudel. Noi conservar vogliamo pieni di gratitudine e d'amore a Regolo la vita.
Manlio - E noi l'onore.
Licinio - L'onor...
Manlio - Basta; io non venni a garrir teco. Olà: libero il varco lasci ciascuno.
Licinio - Olà: nessun si parta.
Manlio - Io l'impongo.
Licinio - Io lo vieto.
Manlio - Osa Licinio al console d'opporsi?
Licinio - Osa al tribuno d'opporsi Manlio?
Manlio - Or si vedrà. Littori, sgombrate il passo.
Licinio - Il passo difendete, o Romani.
Manlio - Oh dei! Con l'armi si resiste al mio cenno? In questa guisa la maestà...
Licinio - La maestade in Roma nel popolo risiede; e tu l'oltraggi contrastando con lui. POPOLO Regolo resti.
Manlio - Udite: lasciate che l'inganno io manifesti. POPOLO Resti Regolo.
Manlio - Ah voi... POPOLO Regolo resti.
SCENA ULTIMA
Regolo, e seco tutti.
Regolo - Regolo resti! Ed io l'ascolto! Ed io creder deggio a me stesso! Una perfidia si vuol? Si vuole in Roma? si vuol da me? Quai popoli or produce questo terren! Sì vergognosi voti chi formò? chi nudrilli? Dove sono i nepoti de' Bruti, de' Fabrizi e de' Camilli? Regolo resti! Ah per qual colpa e quando meritai l'odio vostro?
Licinio - È il nostro amore, signor, quel che pretende franger le tue catene.
Regolo - E senza queste Regolo che sarà? Queste mi fanno de' posteri l'esempio, il rossor de' nemici, lo splendor della patria: e più non sono, se di queste mi privo, che uno schiavo spergiuro e fuggitivo.
Licinio - A perfidi giurasti, giurasti in ceppi; e gli àuguri...
Regolo - Eh lasciamo all'Arabo ed al Moro questi d'infedeltà pretesti indegni. Roma a' mortali a serbar fede insegni.
Licinio - Ma che sarà di Roma, se perde il padre suo?
Regolo - Roma rammenti che il suo padre è mortal; che al fin vacilla anch'ei sotto l'acciar; che sente al fine anch'ei le vene inaridir; che ormai non può versar per lei né sangue, né sudor; che non gli resta che finir da romano. Ah m'apre il Cielo una splendida via: de' giorni miei possa l'annoso stame troncar con lode; e mi volete infame! No, possibil non è: de' miei Romani conosco il cor. Da Regolo diverso pensar non può chi respirò nascendo l'aure del Campidoglio. Ognun di voi so che nel cor m'applaude; so che m'invidia e che fra' moti ancora di quel, che l'ingannò, tenero eccesso, fa voti al Ciel di poter far l'istesso. Ah non più debolezza. A terra, a terra quell'armi inopportune: al mio trionfo più non tardate il corso, o amici, o figli, o cittadini. Amico, favor da voi domando; esorto, cittadin; padre, comando.
Attilia - (Oh Dio! Ciascun già l'ubbidisce).
Publio - (Oh Dio! ecco ogni destra inerme).
Licinio - Ecco sgombro il sentier.
Regolo - Grazie vi rendo, propizi dei: libero è il passo. Ascendi, Amilcare, alle navi; io sieguo i passi tui.
Amilcare - (Al fin comincio ad invidiar costui).
Regolo - Romani, addio. Siano i congedi estremi degni di noi. Lode agli dei, vi lascio, e vi lascio Romani. Ah conservate illibato il gran nome; e voi sarete gli arbitri della terra; e il mondo intero roman diventerà. Numi custodi di quest'almo terren, dee protettrici della stirpe d'Enea, confido a voi questo popol d'eroi: sian vostra cura questo suol, questi tetti e queste mura. Fate che sempre in esse la costanza, la fé, la gloria alberghi, la giustizia, il valore. E, se giammai minaccia al Campidoglio alcun astro maligno influssi rei, ecco Regolo, o dei: Regolo solo sia la vittima vostra; e si consumi tutta l'ira del Ciel sul capo mio: ma Roma illesa... Ah qui si piange! Addio.
CORO
Onor di questa sponda, padre di Roma, addio. Degli anni e dell'obblio noi trionfiam per te. Ma troppo costa il vanto; Roma ti perde intanto; ed ogni età feconda di Regoli non è.
FINE DEL DRAMMA
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