Pietro Metastasio - Opera Omnia >>  Olimpiade




 

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Dramma rappresentato con musica del Caldara la prima volta nel giardino dell'imperial Favorita alla presenza degli augusti regnanti il dì 28 agosto 1733, per festeggiare il giorno di nascita dell'imperatrice Elisabetta, d'ordine dell'imperator Carlo VI.



PERSONAGGI

 
CLISTENE  re di Sicione, padre d'Aristea.
 
ARISTEA  sua figlia, amante di Megacle.
 
ARGENE  dama cretense, in abito di pastorella sotto nome di Licori, amante di Licida.
 
LICIDA  creduto figlio del re di Creta, amante d'Aristea ed amico di Megacle.
 
MEGACLE  amante d'Aristea ed amico di Licida.
 
AMINTA  aio di Licida.
 
ALCANDRO  confidente di Clistene.
 

La scena si finge nelle campagne d'Elide vicino alla città d'Olimpia, alle sponde del fiume Alfeo.




ATTO PRIMO

SCENA I

Fondo selvoso di cupa ed angusta valle, adombrata dall'alto da grandi alberi che giungono ad intrecciare i rami dall'uno all'altro colle, fra' quali è chiusa.

Licida ed Aminta.

Licida - Ho risoluto, Aminta,
      più consiglio non vo'.

Aminta - Licida, ascolta.
      Deh modera una volta
      questo tuo violento
      spirito intollerante.

Licida - E in chi poss'io
      fuor che in me più sperar? Megacle istesso,
      Megacle m'abbandona
      nel bisogno maggiore. Or va, riposa
      su la fé d'un amico.

Aminta - Ancor non dèi
      condannarlo però. Breve cammino
      non è quel che divide
      Elide, in cui noi siamo,
      da Creta ov'ei restò. L'ali alle piante
      non ha Megacle al fin. Forse il tuo servo
      subito nol rinvenne. Il mar frapposto
      forse ritarda il suo venir. T'accheta:
      in tempo giungerà. Prescritta è l'ora
      agli olimpici giuochi
      oltre il meriggio, ed or non è l'aurora.

Licida - Sai pur che ognun, che aspiri
      all'olimpica palma, or sul mattino
      dee presentarsi al tempio; il grado, il nome,
      la patria palesar; di Giove all'ara
      giurar di non valersi
      di frode nel cimento.

Aminta - Il so.

Licida - T'è noto
      ch'escluso è dalla pugna
      chi quest'atto solenne
      giunge tardi a compir? Vedi la schiera
      de' concorrenti atleti? Odi il festivo
      tumulto pastoral? Dunque che deggio
      attender più, che più sperar?

Aminta - Ma quale
      sarebbe il tuo disegno?

Licida - All'ara innanzi
      presentarmi con gli altri.

Aminta - E poi?

Licida - Con gli altri
      a suo tempo pugnar.

Aminta - Tu!

Licida - Sì. Non credi
      in me valor che basti?

Aminta - Eh qui non giova,
      prence, il saper come si tratti il brando.
      Altra specie di guerra, altr'armi ed altri
      studi son questi. Ignoti nomi a noi
      cesto, disco, palestra, a' tuoi rivali
      per lung'uso son tutti
      familiari esercizi. Al primo incontro
      del giovanile ardire
      ti potresti pentir.

Licida - Se fosse a tempo
      Megacle giunto a tai contese esperto,
      pugnato avria per me: ma, s'ei non viene,
      che far degg'io? Non si contrasta, Aminta,
      oggi in Olimpia del selvaggio ulivo
      la solita corona. Al vincitore
      sarà premio Aristea, figlia reale
      dell'invitto Clistene, onor primiero
      delle greche sembianze; unica e bella
      fiamma di questo cor, benché novella.

Aminta - Ed Argene?

Licida - Ed Argene
      più riveder non spero. Amor non vive,
      quando muor la speranza.

Aminta - E pur giurasti
      tante volte...

Licida - T'intendo. In queste fole,
      finché l'ora trascorra,
      trattener mi vorresti. Addio.

Aminta - Ma senti.

Licida - No no.

Aminta - Vedi che giunge...

Licida - Chi?

Aminta - Megacle.

Licida - Dov'è?

Aminta - Fra quelle piante
      parmi... No... non è desso.

Licida - Ah mi deridi,
      e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco,
      che in Megacle sperai.



SCENA II

Megacle, e detti.

Megacle - Megacle è teco.

Licida - Giusti dei!

Megacle - Prence.

Licida - Amico.
      Vieni, vieni al mio seno. Ecco risorta
      la mia speme cadente.

Megacle - E sarà vero
      che il Ciel m'offra una volta
      la via d'esserti grato?

Licida - E pace e vita
      tu puoi darmi, se vuoi.

Megacle - Come?

Licida - Pugnando
      nell'olimpico agone
      per me, col nome mio.

Megacle - Ma tu non sei
      noto in Elide ancor?

Licida - No.

Megacle - Quale oggetto
      ha questa trama?

Licida - Il mio riposo. Oh Dio!
      non perdiamo i momenti. Appunto è l'ora
      che de' rivali atleti
      si raccolgono i nomi. Ah vola al tempio;
      dì che Licida sei. La tua venuta
      inutile sarà, se più soggiorni.
      Vanne. Tutto saprai quando ritorni.

Megacle - Superbo di me stesso
      andrò portando in fronte
      quel caro nome impresso,
      come mi sta nel cor.
      Dirà la Grecia poi
      che fur comuni a noi
      l'opre, i pensier, gli affetti,
      e al fine i nomi ancor.



SCENA III

Licida ed Aminta.

Licida - Oh generoso amico!
      Oh Megacle fedel!

Aminta - Così di lui
      non parlavi poc'anzi.

Licida - Eccomi al fine
      possessor d'Aristea. Vanne, disponi
      tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa,
      prima che il sol tramonti,
      voglio quindi partir.

Aminta - Più lento, o prence,
      nel fingerti felice. Ancor vi resta
      molto di che temer. Potria l'inganno
      esser scoperto: al paragon potrebbe
      Megacle soggiacer. So ch'altre volte
      fu vincitor; ma un impensato evento
      so che talor confonde il vile e 'l forte;
      né sempre ha la virtù l'istessa sorte.

Licida - Oh sei pure importuno
      con questo tuo noioso
      perpetuo dubitar. Vicino al porto
      vuoi ch'io tema il naufragio? A' dubbi tuoi
      chi presta fede intera,
      non sa mai quando è l'alba o quando è sera.
      Quel destrier, che all'albergo è vicino,
      più veloce s'affretta nel corso;
      non l'arresta l'angustia del morso,
      non la voce, che legge gli dà.
      Tal quest'alma, che piena è di speme,
      nulla teme, consiglio non sente;
      e si forma una gioia presente
      del pensiero che lieta sarà.



SCENA IV

Vasta campagna alle falde d'un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d'alberi rozzamente commessi. Veduta della città d'Olimpia in lontano, interrotta da poche piante che adornano la pianura, ma non l'ingombrano.

Argene in abito di pastorella sotto nome di Licori, tessendo ghirlande. Coro di ninfe e pastori, tutti occupati in lavori pastorali, poi Arista con seguito.

Coro - Oh care selve, oh cara
      felice libertà!

Argene - Qui se un piacer si gode,
      parte non v'ha la frode
      ma lo condisce a gara
      amore e fedeltà.

Coro - Oh care selve, oh cara
      felice libertà!

Argene - Qui poco ognun possiede,
      e ricco ognun si crede:
      né, più bramando, impara
      che cosa è povertà.

Coro - Oh care selve, oh cara
      felice libertà!

Argene - Senza custodi o mura
      la pace è qui sicura,
      che l'altrui voglia avara
      onde allettar non ha.

Coro - Oh care selve, oh cara
      felice libertà!

Argene - Qui gl'innocenti amori
      di ninfe... Ecco Aristea.

Aristea - Siegui, o Licori.

Argene - Già il rozzo mio soggiorno
      torni a render felice, o principessa?

Aristea - Ah fuggir da me stessa
      potessi ancor, come dagli altri! Amica
      tu non sai qual funesto
      giorno per me sia questo.

Argene - E` questo un giorno
      glorioso per te. Di tua bellezza
      qual può l'età futura
      prova aver più sicura? A conquistarti
      nell'olimpico agone
      tutto il fior della Grecia oggi s'espone.

Aristea - Ma chi bramo non v'è. Deh si proponga
      men funesta materia
      al nostro ragionar. Siedi, Licori:
      gl'interrotti lavori
      riprendi, e parla. Incominciasti un giorno
      a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo
      di proseguirli. Il mio dolor seduci;
      raddolcisci, se puoi,
      i miei tormenti in rammentando i tuoi.

Argene - Se avran tanta virtù, senza mercede
      non va la mia costanza. A te già dissi
      che Argene è il nome mio; che in Creta io nacqui
      d'illustre sangue, e che gli affetti miei
      fur più nobili ancor de' miei natali.

Aristea - So fin qui.

Argene - De' miei mali
      ecco il principio. Del cretense soglio
      Licida il regio erede
      fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo
      prudenti un tempo il nostro amor; ma poi
      l'amor s'accrebbe, e, come in tutti avviene,
      la prudenza scemò. Comprese alcuno
      il favellar de' nostri sguardi: ad altri
      i sensi ne spiegò. Di voce in voce
      tanto in breve si stese
      il maligno romor, che 'l re l'intese:
      se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui
      vietò di più vedermi, e col divieto
      glien'accrebbe il desio; che aggiunge il vento
      fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume
      fanno gli argini opposti. Ebro d'amore
      freme Licida, e pensa
      di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno
      spiega in un foglio: a me l'invia. Tradisce
      la fede il messo, e al re lo reca. E` chiuso
      in custodito albergo
      il mio povero amante. A me s'impone
      che a straniero consorte
      porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno
      contro me si dichiara. Il re minaccia:
      mi condannan gli amici: il padre mio
      vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo
      che la fuga o la morte
      al mio caso non trovo. Il men funesto
      credo il più saggio, e l'eseguisco. Ignota
      in Elide pervenni. In queste selve
      mi proposi abitar. Qui fra pastori
      pastorella mi finsi, e or son Licori:
      ma serbo al caro bene
      fido in sen di Licori il cor d'Argene.

Aristea - In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga
      non approvo però. Donzella e sola
      cercar contrade ignote,
      abbandonar...

Argene - Dunque dovea la mano
      a Megacle donar?

Aristea - Megacle? (Oh nome!)
      Di qual Megacle parli?

Argene - Era lo sposo
      questi, che il re mi destinò. Dovea
      dunque obbliar...

Aristea - Ne sai la patria?

Argene - Atene.

Aristea - Come in Creta pervenne?

Argene - Amor vel trasse,
      com'ei stesso dicea, ramingo, afflitto.
      Nel giungervi fu colto
      da stuol di masnadieri; e oppresso ormai
      la vita vi perdea. Licida a sorte
      vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro
      fidi amici fur sempre. Amico al figlio,
      fu noto al padre; e dal reale impero
      destinato mi fu, perché straniero.

Aristea - Ma ti ricordi ancora
      le sue sembianze?

Argene - Io l'ho presente. Avea
      bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri
      vermigli sì, ma tumidetti, e forse
      oltre il dover; gli sguardi
      lenti e pietosi: un arrossir frequente,
      un soave parlar... Ma... principessa,
      tu cambi di color! Che avvenne?

Aristea - Oh Dio!
      Quel Megacle, che pingi, è l'idol mio.

Argene - Che dici!

Aristea - Il vero. A lui,
      lunga stagion già mio segreto amante,
      perché nato in Atene,
      negommi il padre mio, né volle mai
      conoscerlo, vederlo,
      ascoltarlo una volta. Ei disperato
      da me partì; più nol rividi: e in questo
      punto da te so de' suoi casi il resto.

Argene - In ver sembrano i nostri
      favolosi accidenti.

Aristea - Ah s'ei sapesse
      ch'oggi per me qui si combatte!

Argene - In Creta
      a lui voli un tuo servo; e tu procura
      la pugna differir.

Aristea - Come?

Argene - Clistene
      è pur tuo padre: ei qui presiede eletto
      arbitro delle cose; ei può, se vuole...

Aristea - Ma non vorrà.

Argene - Che nuoce,
      principessa, il tentarlo?

Aristea - E ben, Clistene
      vadasi a ritrovar.

Argene - Fermati: ei viene.



SCENA V

Clistene con sèguito, e dette.

Clistene - Figlia, tutto è compìto. I nomi accolti,
      le vittime svenate, al gran cimento
      l'ora è prescritta; e più la pugna ormai,
      senza offesa de' numi,
      della pubblica fé, dell'onor mio,
      differir non si può.

Aristea - (Speranze, addio).

Clistene - Ragion d'esser superba
      io ti darei, se ti dicessi tutti
      quei, che a pugnar per te vengono a gara.
      V'è Olinto di Megara,
      v'è Clearco di Sparta, Ati di Tebe,
      Erilo di Corinto, e fin di Creta
      Licida venne.

Argene - Chi?

Clistene - Licida, il figlio
      del re cretense.

Aristea - Ei pur mi brama?

Clistene - Ei viene
      con gli altri a prova.

Argene - (Ah si scordò d'Argene!)

Clistene - Sieguimi, figlia.

Aristea - Ah questa pugna, o padre,
      si differisca.

Clistene - Un impossibil chiedi:
      dissi perché. Ma la cagion non trovo
      di tal richiesta.

Aristea - A divenir soggette
      sempre v'è tempo. E` d'Imeneo per noi
      pesante il giogo; e già senz'esso abbiamo
      che soffrire abbastanza
      nella nostra servil sorte infelice.

Clistene - Dice ognuna così, ma il ver non dice.
      Del destin non vi lagnate
      se vi rese a noi soggette;
      siete serve, ma regnate
      nella vostra servitù.
      Forti noi, voi belle siete,
      e vincete in ogn'impresa,
      quando vengono a contesa
      la bellezza e la virtù.



SCENA VI

Aristea ed Argene.

Argene - Udisti, o principessa?

Aristea - Amica, addio:
      convien ch'io siegua il padre. Ah tu, che puoi,
      del mio Megacle amato,
      se pietosa pur sei, come sei bella,
      cerca, recami, oh Dio, qualche novella.
      Tu di saper procura
      dove il mio ben s'aggira,
      se più di me si cura,
      se parla più di me.
      Chiedi se mai sospira
      quando il mio nome ascolta;
      se il profferì talvolta
      nel ragionar fra sé.



SCENA VII

Argene.

Argene - Dunque Licida ingrato
      già di me si scordò! Povera Argene,
      a che mai ti serbar le stelle irate!
      Imparate, imparate,
      inesperte donzelle. Ecco lo stile
      de' lusinghieri amanti. Ognun vi chiama
      suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno
      giura che, a voi pensando,
      vaneggia il dì, veglia le notti. Han l'arte
      di lagrimar, d'impallidir. Tal volta
      par che su gli occhi vostri
      voglian morir fra gli amorosi affanni:
      guardatevi da lor, son tutti inganni.
      Più non si trovano
      fra mille amanti
      sol due bell'anime,
      che sian costanti
      e tutti parlano
      di fedeltà.
      E il reo costume
      tanto s'avanza,
      che la costanza
      di chi ben ama
      ormai si chiama
      semplicità.



SCENA VIII

Licida e Megacle da diverse parti.

Megacle - Licida.

Licida - Amico.

Megacle - Eccomi a te.

Licida - Compisti...

Megacle - Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio
      per te mi presentai. Per te fra poco
      vado al cimento. Or, fin che il noto segno
      della pugna si dia, spiegar mi puoi
      la cagion della trama.

Licida - Oh, se tu vinci,
      non ha di me più fortunato amante
      tutto il regno d'Amor.

Megacle - Perché?

Licida - Promessa
      in premio al vincitore
      è una real beltà. La vidi appena,
      che n'arsi e la bramai. Ma poco esperto
      negli atletici studi...

Megacle - Intendo. Io deggio
      conquistarla per te.

Licida - Sì. Chiedi poi
      la mia vita, il mio sangue, il regno mio;
      tutto, o Megacle amato, io t'offro, e tutto
      scarso premio sarà.

Megacle - Di tanti, o prence,
      stimoli non fa d'uopo
      al grato servo, al fido amico. Io sono
      memore assai de' doni tuoi: rammento
      la vita che mi desti. Avrai la sposa;
      speralo pur. Nella palestra elèa
      non entro pellegrin. Bevve altre volte
      i miei sudori: ed il silvestre ulivo
      non è per la mia fronte
      un insolito fregio. Io più sicuro
      mai di vincer non fui. Desio d'onore,
      stimoli d'amistà mi fan più forte.
      Anelo, anzi mi sembra
      d'esser già nell'agon. Gli emuli al fianco
      mi sento già; già li precorro: e, asperso
      dell'olimpica polve il crine, il volto,
      del volgo spettator gli applausi ascolto.

Licida - Oh dolce amico! Oh cara
      sospirata Aristea!

Megacle - Che!

Licida - Chiamo a nome
      il mio tesoro.

Megacle - Ed Aristea si chiama?

Licida - Appunto.

Megacle - Altro ne sai?

Licida - Presso a Corinto
      nacque in riva all'Asopo, al re Clistene
      unica prole.

Megacle - (Aimè! Questa è il mio bene).
      E per lei si combatte?

Licida - Per lei.

Megacle - Questa degg'io
      conquistarti pugnando?

Licida - Questa.

Megacle - Ed è tua speranza e tuo conforto
      sola Aristea?

Licida - Sola Aristea.

Megacle - (Son morto).

Licida - Non ti stupir. Quando vedrai quel volto,
      forse mi scuserai. D'esserne amanti
      non avrebbon rossore i numi istessi.

Megacle - (Ah così nol sapessi!)

Licida - Oh, se tu vinci,
      chi più lieto di me! Megacle istesso
      quanto mai ne godrà! Dì; non avrai
      piacer del piacer mio?

Megacle - Grande.

Licida - Il momento,
      che ad Aristea m'annodi,
      Megacle, dì, non ti parrà felice?

Megacle - Felicissimo. (Oh dei!)

Licida - Tu non vorrai
      pronubo accompagnarmi
      al talamo nuzial?

Megacle - (Che pena!)

Licida - Parla.

Megacle - Sì; come vuoi. (Qual nuova specie è questa
      di martirio e d'inferno!)

Licida - Oh quanto il giorno
      lungo è per me! Che l'aspettare uccida
      nel caso, in cui mi vedo,
      tu non credi, o non sai.

Megacle - Lo so, lo credo.

Licida - Senti, amico. Io mi fingo
      già l'avvenir: già col desio possiedo
      la dolce sposa.

Megacle - (Ah questo è troppo!)

Licida - E parmi...

Megacle - Ma taci: assai dicesti. Amico io sono;
      il mio dover comprendo;
      ma poi...

Licida - Perché ti sdegni? In che t'offendo?

Megacle - (Imprudente, che feci!) Il mio trasporto
      è desio di servirti. Io stanco arrivo
      da cammin lungo: ho da pugnar: mi resta
      picciol tempo al riposo, e tu mel togli.

Licida - E chi mai ti ritenne
      di spiegarti fin ora?

Megacle - Il mio rispetto.

Licida - Vuoi dunque riposar?

Megacle - Sì.

Licida - Brami altrove
      meco venir?

Megacle - No.

Licida - Rimaner ti piace
      qui fra quest'ombre?

Megacle - Sì.

Licida - Restar degg'io?

Megacle - No.

Licida - (Strana voglia!) E ben, riposa: addio.
      Mentre dormi, Amor fomenti
      il piacer de' sonni tuoi
      con l'idea del mio piacer.
      Abbia il rio passi più lenti;
      e sospenda i moti suoi
      ogni zeffiro leggier.



SCENA IX

Megacle.

Megacle - Che intesi, eterni dei! Quale improvviso
      fulmine mi colpì! L'anima mia
      dunque fia d'altri! E ho da condurla io stesso
      in braccio al mio rival! Ma quel rivale
      è il caro amico. Ah quali nomi unisce
      per mio strazio la sorte! Eh che non sono
      rigide a questo segno
      le leggi d'amistà. Perdoni il prence,
      ancor io sono amante. Il domandarmi
      ch'io gli ceda Aristea non è diverso
      dal chiedermi la vita. E questa vita
      di Licida non è? Non fu suo dono?
      Non respiro per lui? Megacle ingrato,
      e dubitar potresti? Ah! se ti vede
      con questa in volto infame macchia e rea,
      ha ragion d'aborrirti anche Aristea.
      No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto
      obblighi d'amistà, pegni di fede,
      gratitudine, onore. Altro non temo
      che 'l volto del mio ben. Questo s'evìti
      formidabile incontro. In faccia a lei,
      misero, che farei! Palpito e sudo
      solo in pensarlo, e parmi
      istupidir, gelarmi,
      confondermi, tremar... No, non potrei...



SCENA X

Aristea, e detto, poi Alcandro.

Argene - Stranier.

Megacle - Chi mi sorprende?

Aristea - (Oh stelle!)

Megacle - (Oh dei!)

Aristea - Megacle! mia speranza!
      Ah sei pur tu? Pur ti riveggo? Oh Dio!
      di gioia io moro; ed il mio petto appena
      può alternare i respiri. Oh caro! Oh tanto
      e sospirato e pianto
      e richiamato in vano! Udisti al fine
      la povera Aristea. Tornasti: e come
      opportuno tornasti! Oh Amor pietoso!
      Oh felici martìri!
Oh ben sparsi fin or pianti e sospiri!

Megacle - (Che fiero caso è il mio!)

Aristea - Megacle amato,
      e tu nulla rispondi?
      E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto
      cambiarti di color? Quel non mirarmi
      che timido e confuso? E quelle a forza
      lagrime trattenute? Ah! più non sono
      forse la fiamma tua? Forse...

Megacle - Che dici!
      Sempre... Sappi... Son io...
      Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)

Aristea - Ma tu mi fai gelar. Dimmi: non sai
      che per me qui si pugna?

Megacle - Il so.

Aristea - Non vieni
      ad esporti per me?

Megacle - Sì.

Aristea - Perché mai
      dunque sei così mesto?

Megacle - Perché... (Barbari dei, che inferno è questo!)

Aristea - Intendo: alcun ti fece
      dubitar di mia fé. Se ciò t'affanna,
      ingiusto sei. Da che partisti, o caro,
      non son rea d'un pensier. Sempre m'intesi
      la tua voce nell'alma: ho sempre avuto
      il tuo nome fra' labbri,
      il tuo volto nel cor. Mai d'altri accesa
      non fui, non sono, e non sarò. Vorrei...

Megacle - Basta: lo so.

Aristea - Vorrei morir più tosto
      che mancarti di fede un sol momento.

Megacle - (Oh tormento maggior d'ogni tormento!)

Aristea - Ma guardami, ma parla,
      ma dì...

Megacle - Che posso dir?

Alcandro - Signor, t'affretta,
      se a combatter venisti. Il segno è dato,
      che al gran cimento i concorrenti invita.

Megacle - Assistetemi, o numi. Addio, mia vita.

Aristea - E mi lasci così? Va; ti perdono,
      pur che torni mio sposo.

Megacle - Ah sì gran sorte
      non è per me!

Aristea - Senti. Tu m'ami ancora?

Megacle - Quanto l'anima mia.

Aristea - Fedel mi credi?

Megacle - Sì, come bella.

Aristea - A conquistar mi vai?

Megacle - Lo bramo almeno.

Aristea - Il tuo valor primiero
      hai pur?

Megacle - Lo credo.

Aristea - E vincerai?

Megacle - Lo spero.

Aristea - Dunque allor non son io,
      caro, la sposa tua?

Megacle - Mia vita... Addio.
      Ne' giorni tuoi felici
      ricordati di me.

Aristea - Perché così mi dici,
      anima mia, perché?

Megacle - Taci, bell'idol mio.

Aristea - Parla, mio dolce amor.

Megacle - Ah che parlando oh Dio!

Aristea - Ah che tacendo oh Dio!
      A DUE tu mi trafiggi il cor.

Aristea - (Veggio languir chi adoro,
      né intendo il suo languir).

Megacle - (Di gelosia mi moro,
      e non lo posso dir).
      A DUE Chi mai provò di questo
      affanno più funesto,
      più barbaro dolor!


FINE DELL'ATTO PRIMO




ATTO SECONDO

SCENA I

Aristea ed Argene.

Argene - Ed ancor della pugna
      l'esito non si sa?

Aristea - No, bella Argene.
      E` pur dura la legge, onde n'è tolto
      d'esserne spettatrici!

Argene - Ah! che sarebbe
      forse pena maggior veder chi s'ama
      in cimento sì grande, e non potergli
      porger soccorso: esser presente...

Aristea - Io sono
      presente ancor lontana: anzi mi fingo
      forse quel che non è. Se tu vedessi
      come sta questo cor! Qui dentro, amica,
      qui dentro si combatte; e più che altrove
      qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi
      Megacle, la palestra,
      i giudici, i rivali. Io mi figuro
      questi più forti e quei men giusti. Io provo
      doppiamente nell'alma
      ciò che or soffre il mio ben, gli urti, le scosse,
      gl'insulti, le minacce. Ah! che presente
      solo il ver temerei; ma il mio pensiero
      fa ch'io tema lontana il falso e il vero.

Argene - Né ancor si vede alcun.

Aristea - Né alcuno... Oh Dio!

Argene - Che avvenne?

Aristea - Oh come io tremo,
      come palpito adesso!

Argene - E la cagione?

Aristea - E` deciso il mio fato:
      vedi Alcandro, che arriva.

Argene - Alcandro, ah corri:
      consolane. Che rechi?



SCENA II

Alcandro, e dette.

ALC. Fortunate novelle. Il re m'invia
      nunzio felice, o principessa. Ed io...

Aristea - La pugna terminò?

Alcandro - Sì; ascolta. Intorno
      già impazienti...

Argene - Il vincitor si chiede.

Alcandro - Tutto dirò. Già impazienti intorno
      le turbe spettatrici...

Aristea - Eh ch'io non cerco
      questo da te.

Alcandro - Ma in ordine distinto...

Aristea - Chi vinse dimmi sol.

Alcandro - Licida ha vinto.

Aristea - Licida!

Alcandro - Appunto.

Argene - Il principe di Creta!

Alcandro - Sì, che giunse poc'anzi a queste arene.

Aristea - (Sventurata Aristea!)

Argene - (Povera Argene!)

Alcandro - Oh te felice! Oh quale
      sposo ti diè la sorte!

Aristea - Alcandro, parti.

Alcandro - T'attende il re.

Aristea - Parti, verrò.

Alcandro - T'attende
      nel gran tempio adunata...

Aristea - Né parti ancor?

Alcandro - (Che ricompensa ingrata!)



SCENA III

Aristea ed Argene.

Argene - Ah dimmi, o principessa,
      v'è sotto il ciel chi possa dirsi, oh Dio!
      più misera di me?

Aristea - Sì, vi son io.

Argene - Ah non ti faccia amore
      provar mai le mie pene! Ah tu non sai
      qual perdita è la mia! Quanto mi costa
      quel cor che tu m'involi!

Aristea - E tu non senti,
      non comprendi abbastanza i miei tormenti.
      Grandi, è ver, son le tue pene:
      perdi, è ver, l'amato bene;
      ma sei tua, ma piangi intanto,
      ma domandi almen pietà.
      Io dal fato io sono oppressa:
      perdo altrui, perdo me stessa;
      né conservo almen del pianto
      l'infelice libertà.



SCENA IV

Argene, poi Aminta.

Argene - E trovar non poss'io
      né pietà né soccorso?

Aminta - Eterni dei!
      parmi Argene colei.

Argene - Vendetta almeno,
      vendetta si procuri.

Aminta - Argene, e come
      tu in Elide! Tu sola!
      Tu in sì ruvide spoglie!

Argene - I neri inganni
      a secondar del prence
      dunque ancor tu venisti? A saggio in vero
      regolator commise il re di Creta
      di Licida la cura. Ecco i bei frutti
      di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta,
      d'andarne altier. Chi vuol sapere appieno
      se fu attento il cultor, guardi il terreno.

Aminta - (Tutto già sa). Non da' consigli miei...

Argene - Basta... Chi sa: nel Cielo
      v'è giustizia per tutti; e si ritrova
      talvolta anche nel mondo. Io chiederolla
      agli uomini, agli dei. S'ei non ha fede,
      ritegni io non avrò. Vuo' che Clistene,
      vuo' che la Grecia, il mondo
      sappia ch'è un traditore, acciò per tutto
      questa infamia lo siegua; acciò che ognuno
      l'abborrisca, l'evìti,
      e con orrore, a chi nol sa, l'addìti.

Aminta - Non son questi pensieri
      degni d'Argene. Un consigliero infido,
      anche giusto, è lo sdegno. Io nel tuo caso
      più dolci mezzi adoprerei. Procura
      ch'ei ti rivegga: a lui favella: a lui
      le promesse rammenta. E` sempre meglio
      il racquistarlo amante
      che opprimerlo nemico.

Argene - E credi, Aminta,
      ch'ei tornerebbe a me?

Aminta - Lo spero. Al fine
      fosti l'idolo suo. Per te languiva,
      delirava per te. Non ti sovviene
      che cento volte e cento...

Argene - Tutto, per pena mia, tutto rammento.
      Che non mi disse un dì!
      Quai numi non giurò!
      E come, oh Dio! si può,
      come si può così
      mancar di fede?
      Tutto per lui perdei;
      oggi lui perdo ancor.
      Poveri affetti miei!
      Questa mi rendi, Amor,
      questa mercede?



SCENA V

Aminta.

Aminta - Insana gioventù! Qualora esposta
      ti veggo tanto agl'impeti d'amore,
      di mia vecchiezza io mi consolo e rido.
      Dolce è il mirar dal lido
      chi sta per naufragar; non che ne alletti
      il danno altrui, ma sol perché l'aspetto
      d'un mal, che non si soffre, è dolce oggetto.
      Ma che! l'età canuta
      non ha le sue tempeste? Ah che pur troppo
      ha le sue proprie; e dal timor dell'altre
      sciolta non è. Son le follie diverse,
      ma folle è ognuno: e a suo piacer ne aggira
      l'odio o l'amor, la cupidigia o l'ira.
      Siam navi all'onde algenti
      lasciate in abbandono:
      impetuosi venti
      i nostri affetti sono:
      ogni diletto è scoglio:
      tutta la vita è mar.
      Ben, qual nocchiero, in noi
      veglia ragion; ma poi
      pur dall'ondoso orgoglio
      si lascia trasportar.



SCENA VI

Clistene preceduto da Licida; Alcandro, Megacle coronato d'ulivo, coro d'Atleti, guardie e popolo.

Tutto il coro - Del forte Licida
      nome maggiore
      d'Alfeo sul margine
      mai non sonò.

Parte del coro - Sudor più nobile
      del suo sudore
      l'arena olimpica
      mai non bagnò.

Altra parte - L'arti ha di Pallade,
      l'ali ha d'Amore:
      d'Apollo e d'Ercole
      l'ardir mostrò.

Tutto il coro - No, tanto merito,
      tanto valore
      l'ombra de' secoli
      coprir non può.

Clistene - Giovane valoroso,
      che in mezzo a tanta gloria umìl ti stai,
      quell'onorata fronte
      lascia ch'io baci e che ti stringa al seno.
      Felice il re di Creta,
      che un tal figlio sortì! Se avessi anch'io
      serbato il mio Filinto,
      chi sa, sarebbe tal. Rammenti, Alcandro,
      con qual dolor tel consegnai? Ma pure...

Alcandro - Tempo or non è di rammentar sventure.

Clistene - (E` ver). Premio Aristea
      sarà del tuo valor. S'altro donarti
      Clistene può, chiedilo pur, che mai
      quanto dar ti vorrei non chiederai.

Megacle - (Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio,
      e di tenero padre. Ogni contento,
      che con lui non divido,
      è insipido per me. Di mie venture
      pria d'ogni altro io vorrei
      giungergli apportator: chieder l'assenso
      per queste nozze; e, lui presente, in Creta
      legarmi ad Aristea.

Clistene - Giusta è la brama.

Megacle - Partirò, se il concedi,
      senz'altro indugio. In vece mia rimanga
      questi, della mia sposa
      servo, compagno e condottier.

Clistene - (Che volto
      è questo mai! Nel rimirarlo il sangue
      mi si riscuote in ogni vena). E questi
      chi è? Come s'appella?

Megacle - Egisto ha nome,
      Creta è sua patria. Egli deriva ancora
      dalla stirpe real: ma più che 'l sangue,
      l'amicizia ne stringe; e son fra noi
      sì concordi i voleri,
      comuni a segno e l'allegrezza e 'l duolo,
      che Licida ed Egisto è un nome solo.

Licida - (Ingegnosa amicizia!)

Clistene - E ben, la cura
      di condurti la sposa
      Egisto avrà. Ma Licida non debbe
      partir senza vederla.

Megacle - Ah no, sarebbe
      pena maggior. Mi sentirei morire
      nell'atto di lasciarla. Ancor da lunge
      tanta pena io ne provo...

Clistene - Ecco che giunge.

Megacle - (Oh me infelice!)



SCENA VII

Aristea, e detti.

ARI. (All'odiose nozze
      come vittima io vengo all'ara avanti).

Licida - (Sarà mio quel bel volto in pochi istanti).

Clistene - Avvicinati, o figlia; ecco il tuo sposo.

Megacle - (Ah! non è ver).

Aristea - Lo sposo mio!

Clistene - Sì. Vedi
      se giammai più bel nodo in Ciel si strinse.

Aristea - (Ma se Licida vinse,
      come il mio bene?... Il genitor m'inganna?)

Licida - (Crede Megacle sposo e se ne affanna).

Aristea - E questi, o padre, è il vincitor?

Clistene - Mel chiedi?
      Non lo ravvisi al volto
      di polve asperso? All'onorate stille,
      che gli rigan la fronte? A quelle foglie,
      che son di chi trionfa
      l'ornamento primiero?

Aristea - Ma che dicesti, Alcandro?

Alcandro - Io dissi il vero.

Clistene - Non più dubbiezze. Ecco il consorte, a cui
      il Ciel t'accoppia: e nol potea più degno
      ottener dagli dei l'amor paterno.

Aristea - (Che gioia!)

Megacle - (Che martìr!)

Licida - (Che giorno eterno!)

Clistene - E voi tacete? Onde il silenzio?

Megacle - (Oh Dio!
      come comincierò?)

Aristea - Parlar vorrei,
      ma...

Clistene - Intendo. Intempestiva
      è la presenza mia. Severo ciglio,
      rigida maestà, paterno impero
      incomodi compagni
      sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora
      quanto increbbero a me. Restate. Io lodo
      quel modesto rossor, che vi trattiene.

Megacle - (Sempre lo stato mio peggior diviene).

Clistene - So ch'è fanciullo Amore,
      né conversar gli piace
      con la canuta età.
      Di scherzi ei si compiace;
      si stanca del rigore:
      e stan di rado in pace
      rispetto e libertà.



SCENA VIII

Aristea, Megacle e Licida.

Megacle - (Fra l'amico e l'amante,
      che farò sventurato!)

Licida - All'idol mio
      è tempo ch'io mi scopra.

Megacle - (Aspetta). Oh Dio!

Aristea - Sposo, alla tua consorte
      non celar che t'affligge.
      MEGACLE (Oh pena! Oh morte!)

Licida - L'amor mio, caro amico,
      non soffre indugio.

Aristea - Il tuo silenzio, o caro,
      mi cruccia, mi dispera.

Megacle - (Ardir mio core:
      finiamo di morir). Per pochi istanti
      allontanati, o prence.

Licida - E qual ragione?...

Megacle - Va: fidati di me. Tutto conviene
      ch'io spieghi ad Aristea.

Licida - Ma non poss'io
      esser presente?

Megacle - No: più che non credi
      delicato è l'impegno.

Licida - E ben, tu 'l vuoi,
      io lo farò. Poco mi scosto: un cenno
      basterà perch'io torni. Ah! pensa, amico,
      di che parli, e per chi. Se nulla mai
      feci per te, se mi sei grato e m'ami,
      mostralo adesso. Alla tua fida aìta
      la mia pace io commetto e la mia vita.



SCENA IX

Megacle ed Aristea.

Megacle - (Oh ricordi crudeli!)

Aristea - Al fin siam soli:
      potrò senza ritegni
      il mio contento esagerar; chiamarti
      mia speme, mio diletto,
      luce degli occhi miei...

Megacle - No, principessa,
      questi soavi nomi
      non son per me. Serbali pure ad altro
      più fortunato amante.

Aristea - E il tempo è questo
      di parlarmi così? Giunto è quel giorno...
      Ma semplice ch'io son: tu scherzi, o caro,
      ed io stolta m'affanno.

Megacle - Ah! non t'affanni
      senza ragion.

Aristea - Spiegati dunque.

Megacle - Ascolta:
      ma coraggio, Aristea. L'alma prepara
      a dar di tua virtù la prova estrema.

Aristea - Parla. Aimè! che vuoi dirmi? Il cor mi trema.

Megacle - Odi. In me non dicesti
      mille volte d'amar, più che 'l sembiante,
      il grato cor, l'alma sincera, e quella,
      che m'ardea nel pensier, fiamma d'onore?

Aristea - Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale
      ti conosco, t'adoro.

Megacle - E se diverso
      fosse Megacle un dì da quel che dici;
      se infedele agli amici,
      se spergiuro agli dei, se, fatto ingrato
      al suo benefattor, morte rendesse
      per la vita che n'ebbe; avresti ancora
      amor per lui? Lo soffriresti amante?
      L'accetteresti sposo?

Aristea - E come vuoi
      ch'io figurar mi possa
      Megacle mio sì scellerato?

Megacle - Or sappi
      che per legge fatale,
      se tuo sposo divien, Megacle è tale.

Aristea - Come!

Megacle - Tutto l'arcano
      ecco ti svelo. Il principe di Creta
      langue per te d'amor. Pietà mi chiede,
      e la vita mi diede. Ah principessa,
      se negarla poss'io, dillo tu stessa.

Aristea - E pugnasti...

Megacle - Per lui.

Aristea - Perder mi vuoi...

Megacle - Sì, per serbarmi sempre
      degno di te.

Aristea - Dunque io dovrò...

Megacle - Tu dèi
      coronar l'opra mia. Sì, generosa,
      adorata Aristea, seconda i moti
      d'un grato cor. Sia, qual io fui fin ora,
      Licida in avvenire. Amalo. E` degno
      di sì gran sorte il caro amico. Anch'io
      vivo di lui nel seno;
      e s'ei t'acquista, io non ti perdo appieno.

Aristea - Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle
      precipito agli abissi. Eh no: si cerchi
      miglior compenso. Ah! senza te la vita
      per me vita non è.

Megacle - Bella Aristea,
      non congiurar tu ancora
      contro la mia virtù. Mi costa assai
      il prepararmi a sì gran passo. Un solo
      di quei teneri sensi
      quant'opera distrugge!

Aristea - E di lasciarmi...

Megacle - Ho risoluto.

Aristea - Hai risoluto? E quando?

Megacle - Questo (morir mi sento)
      questo è l'ultimo addio.

Aristea - L'ultimo! Ingrato...
      Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla:
      freddo sudor mi bagna il volto; e parmi
      ch'una gelida man m'opprima il core!

Megacle - Sento che il mio valore
      mancando va. Più che a partir dimoro,
      meno ne son capace.
      Ardir. Vado, Aristea: rimanti in pace.

Aristea - Come! Già m'abbandoni?

Megacle - E` forza, o cara,
      separarsi una volta.

Aristea - E parti...

Megacle - E parto
      per non tornar più mai.

Aristea - Senti. Ah no... Dove vai?

Megacle - A spirar, mio tesoro,
      lungi dagli occhi tuoi.

Aristea - Soccorso... Io... moro.

Megacle - Misero me, che veggo!
      Ah l'oppresse il dolor! Cara mia speme,
      bella Aristea, non avvilirti; ascolta:
      Megacle è qui. Non partirò. Sarai...
      Che parlo? Ella non m'ode. Avete, o stelle,
      più sventure per me? No, questa sola
      mi restava a provar. Chi mi consiglia?
      Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe
      crudeltà, tirannia. Restar? che giova?
      forse ad esserle sposo? E 'l re ingannato,
      e l'amico tradito, e la mia fede,
      e l'onor mio lo soffrirebbe? Almeno
      partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo
      a quest'orrido passo! Ora è pietade
      l'esser crudele. Addio, mia vita: addio,
      mia perduta speranza. Il Ciel ti renda
      più felice di me. Deh, conservate
      questa bell'opra vostra, eterni dei;
      e i dì, ch'io perderò, donate a lei.
      Licida... Dov'è mai? Licida.



SCENA X

Licida, e detti.

Licida - Intese
      tutto Aristea?

Megacle - Tutto. T'affretta, o prence;
      soccorri la tua sposa.

Licida - Aimè, che miro!
      Che fu?

Megacle - Doglia improvvisa
      le oppresse i sensi.

Licida - E tu mi lasci?

Megacle - Io vado...
      Deh pensa ad Aristea. (Che dirà mai
      quando in sé tornerà? Tutte ho presenti
      tutte le smanie sue). Licida, ah senti.
      Se cerca, se dice:
      “L'amico dov'è?”.
      “L'amico infelice”,
      rispondi, “morì”.
      Ah no! sì gran duolo
      non darle per me:
      rispondi ma solo:
      “Piangendo partì”.
      Che abisso di pene
      lasciare il suo bene,
      lasciarlo per sempre,
      lasciarlo così!



SCENA XI

Licida ed Aristea.

Licida - Che laberinto è questo! Io non l'intendo.
      Semiviva Aristea... Megacle afflitto...

Aristea - Oh Dio!

Licida - Ma già quell'alma
      torna agli usati uffizi. Apri i bei lumi,
      principessa, ben mio.

Aristea - Sposo infedele!

Licida - Ah! non dirmi così. Di mia costanza
      ecco in pegno la destra.

Aristea - Almeno... Oh stelle!
      Megacle ov'è?

Licida - Partì.

Aristea - Partì l'ingrato?
      Ebbe cor di lasciarmi in questo stato?

Licida - Il tuo sposo restò.

Aristea - Dunque è perduta
      l'umanità, la fede,
      l'amore, la pietà! Se questi iniqui
      incenerir non sanno,
      numi, i fulmini vostri in ciel che fanno?

Licida - Son fuor di me. Dì, che t'offese, o cara?
      Parla; brami vendetta? Ecco il tuo sposo,
      ecco Licida...

Aristea - Oh dei!
      Tu quel Licida sei! Fuggi, t'invola,
      nasconditi da me. Per tua cagione,
      perfido, mi ritrovo a questo passo.

Licida - E qual colpa ho commessa? Io son di sasso.

Aristea - Tu me da me dividi;
      barbaro, tu m'uccidi:
      tutto il dolor, ch'io sento,
      tutto mi vien da te.
      No, non sperar mai pace.
      Odio quel cor fallace:
      oggetto di spavento
      sempre sarai per me.



SCENA XII

Licida, poi Argene.

Licida - A me “barbaro”! Oh numi!
      “Perfido” a me! Voglio seguirla; e voglio
      sapere almen che strano enigma è questo.

Argene - Fermati, traditor.

Licida - Sogno o son desto!

Argene - Non sogni no: son io
      l'abbandonata Argene. Anima ingrata,
      riconosci quel volto,
      che fu gran tempo il tuo piacer; se pure
      in sorte sì funesta
      delle antiche sembianze orma vi resta.

Licida - (Donde viene; in qual punto
      mi sorprende costei! Se più mi fermo,
      Aristea non raggiungo). Io non intendo
      bella ninfa, i tuoi detti. Un'altra volta
      potrai meglio spiegarti.

Argene - Indegno, ascolta.

Licida - (Misero me!)

Argene - Tu non m'intendi? Intendo
      ben io la tua perfidia. I nuovi amori,
      le frodi tue tutte riseppi; e tutto
      saprà da me Clistene
      per tua vergogna.

Licida - Ah no! Sentimi, Argene.
      Non sdegnarti: perdona,
      se tardi ti ravviso. Io mi rammento
      gli antichi affetti; e, se tacer saprai,
      forse... chi sa.

Argene - Si può soffrir di questa
      ingiuria più crudel! “Chi sa”, mi dici?
      In vero io son la rea. Picciole prove
      di tua bontà non sono
      le vie che m'offri a meritar perdono.

Licida - Ascolta. Io volli dir...

Argene - Lasciami, ingrato:
      non ti voglio ascoltar.

Licida - (Son disperato).

Argene - No, la speranza
      più non m'alletta:
      voglio vendetta,
      non chiedo amor. Pur che non goda
      quel cor spergiuro,
      nulla mi curo
      del mio dolor.



SCENA XIII

Licida, poi Aminta.

Licida - In angustia più fiera
      io non mi vidi mai. Tutto è in ruina,
      se parla Argene. E` forza
      raggiungerla, placarla... E chi trattiene
      la principessa intanto? Il solo amico
      potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno
      e consiglio e conforto
      Megacle mi darà.

Aminta - Megacle è morto!

Licida - Che dici, Aminta!

Aminta - Io dico
      pur troppo il ver.

Licida - Come! Perché? Qual empio
      sì bei giorni troncò? Trovisi: io voglio
      ch'esempio di vendetta altrui ne resti.

Aminta - Principe, nol cercar: tu l'uccidesti.

Licida - Io! Deliri?

Aminta - Volesse
      il Ciel ch'io delirassi. Odimi. In traccia
      mentre or di te venìa, fra quelle piante
      un gemito improvviso
      sento: mi fermo: al suon mi volgo; e miro
      uom, che sul nudo acciaro
      prono già s'abbandona. Accorro. Al petto
      fo d'una man sostegno;
      con l'altra il ferro svio. Ma, quando al volto
      Megacle ravvisai,
      pensa com'ei restò, com'io restai!
      Dopo un breve stupore: “Ah qual follia
      bramar ti fa la morte!”,
      io volea dirgli. Ei mi prevenne: “Aminta,
      ho vissuto abbastanza”,
      sospirando mi disse
      dal profondo del cor. “Senz'Aristea
      non so viver, né voglio. Ah! son due lustri
      che non vivo che in lei. Licida, oh Dio!
      m'uccide, e non lo sa; ma non m'offende:
      suo dono è questa vita; ei la riprende”.

Licida - Oh amico! E poi?

Aminta - Fugge da me, ciò detto,
      come partico stral. Vedi quel sasso,
      signor, colà, che il sottoposto Alfeo
      signoreggia ed adombra? Egli v'ascende
      in men che non balena. In mezzo al fiume
      si scaglia: io grido in van. L'onda percossa
      balzò, s'aperse; in frettolosi giri
      si riunì; l'ascose. Il colpo, i gridi
      replicaron le sponde; e più nol vidi.

Licida - Ah qual orrida scena
      or si scopre al mio sguardo!

Aminta - Almen la spoglia,
      che albergò sì bell'alma,
      vadasi a ricercar. Da' mesti amici
      questi a lui son dovuti ultimi uffici.



SCENA XIV

Licida, poi Alcandro.

Licida - Dove son! Che m'avvenne! Ah dunque il Cielo
      tutte sopra il mio capo
      rovesciò l'ire sue! Megacle, oh Dio!
      Megacle, dove sei? Che fo nel mondo
      senza di te! Rendetemi l'amico,
      ingiustissimi dei! Voi mel toglieste,
      lo rivoglio da voi. Se lo negate,
      barbari, a' voti miei, dovunque ei sia
      a viva forza il rapirò. Non temo
      tutti i fulmini vostri: ho cor che basta
      a ricalcar su l'orme
      d'Ercole e di Tesèo le vie di morte.

Alcandro - Olà!

Licida - Del guado estremo...

Alcandro - Olà!

Licida - Chi sei
      tu, che audace interrompi
      le smanie mie?

Alcandro - Regio ministro io sono.

Licida - Che vuole il re?

Alcandro - Che in vergognoso esiglio
      quindi lungi tu vada. Il sol cadente
      se in Elide ti lascia,
      sei reo di morte.

Licida - A me tal cenno?

Alcandro - Impara
      a mentir nome, a violar la fede,
      a deludere i re.

Licida - Come! Ed ardisci,
      temerario...

Alcandro - Non più. Principe, è questo
      mio dover; l'ho adempito: adempi il resto.



SCENA XV

Licida.

Licida - Con questo ferro, indegno,
      il sen ti passerò... Folle, che dico?
      che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io,
      io son lo scellerato. In queste vene
      con più ragion l'immergerò. Sì, mori,
      Licida sventurato... Ah perché tremi,
      timida man? Chi ti ritiene? Ah questa
      è ben miseria estrema! Odio la vita:
      m'atterrisce la morte; e sento intanto
      stracciarmi a brano a brano
      in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,
      tenerezza, amicizia,
      pentimento, pietà, vergogna, amore
      mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
      anima lacerata
      da tanti affetti e sì contrari! Io stesso
      non so come si possa
      minacciando tremare, arder gelando,
      piangere in mezzo all'ire,
      bramar la morte, e non saper morire.
      Gemo in un punto e fremo:
      fosco mi sembra il giorno:
      ho cento larve intorno;
      ho mille furie in sen.
      Con la sanguigna face
      m'arde Megera il petto;
      m'empie ogni vena Aletto
      del freddo suo velen.


FINE DELL'ATTO SECONDO




ATTO TERZO

SCENA I

Bipartita che si forma dalle rovine di un antico ippodromo, già ricoperte in gran parte d'edera, di spini e d'altre piante selvagge.

Megacle trattenuto da Aminta per una parte, e dopo Aristea trattenuta da Argene per l'altra: ma quelli non veggono queste.

Megacle - Lasciami. In van t'opponi.

Aminta - Ah torna, amico,
      una volta in te stesso. In tuo soccorso
      pronta sempre la mano
      del pescator, ch'or ti salvò dall'onde,
      credimi, non avrai. Si stanca il Cielo
      d'assister chi l'insulta.

Megacle - Empio soccorso,
      inumana pietà! negar la morte
      a chi vive morendo. Aminta, oh Dio!
      lasciami.

Aminta - Non fia ver.

Aristea - Lasciami, Argene.

Argene - Non lo sperar.

Megacle - Senz'Aristea non posso,
      non deggio viver più.

Aristea - Morir vogl'io
      dove Megacle è morto.

Aminta - Attendi.

Argene - Ascolta.

Megacle - Che attender?

Aristea - Che ascoltar?

Megacle - Non si ritrova
      più conforto per me.

Aristea - Per me nel mondo
      non v'è più che sperar.

Megacle - Serbarmi in vita...

Aristea - Impedirmi la morte...

Megacle - Indarno tu pretendi.

Aristea - In van presumi.

Aminta - Ferma.

Argene - Senti, infelice.

Aristea - Oh stelle!

Megacle - Oh numi!

Aristea - Megacle!

Megacle - Principessa!

Aristea - Ingrato! E tanto
      m'odii dunque e mi fuggi,
      che, per esserti unita
      s'io m'affretto a morir, tu torni in vita?

Megacle - Vedi a qual segno è giunta,
      adorata Aristea, la mia sventura;
      io non posso morir: trovo impedite
      tutte le vie, per cui si passa a Dite.

Aristea - Ma qual pietosa mano...



SCENA II

Alcandro, e detti.

ALC. Oh sacrilego! Oh insano!
      Oh scellerato ardir!

Aristea - Vi sono ancora
      nuovi disastri, Alcandro?

Alcandro - In questo istante
      rinasce il padre tuo.

Aristea - Come!

Alcandro - Che orrore,
      che ruina, che lutto,
      se 'l Ciel non difendea, n'avrebbe involti!

Aristea - Perché?

Alcandro - Già sai che per costume antico
      questo festivo dì con un solenne
      sacrifizio si chiude. Or mentre al tempio
      venìa fra' suoi custodi
      la sacra pompa a celebrar Clistene,
      perché non so, né da qual parte uscito,
      Licida impetuoso
      ci attraversa il cammin. Non vidi mai
      più terribile aspetto. Armato il braccio,
      nuda la fronte avea, lacero il manto,
      scomposto il crin. Dalle pupille accese
      uscia torbido il guardo; e per le gote,
      d'inaridite lagrime segnate,
      traspirava il furore. Urta, rovescia
      i sorpresi custodi; al re s'avventa:
      “Mori”, grida fremendo, e gli alza in fronte
      il sacrilego ferro.

Aristea - Oh Dio!

Alcandro - Non cangia
      il re sito o color. Severo il guardo
      gli ferma in faccia; e in grave suon gli dice:
      “Temerario, che fai?”. (Vedi se il Cielo
      veglia in cura de' re!) Gela a que' detti
      il giovane feroce. Il braccio in alto
      sospende a mezzo il colpo. Il regio aspetto
      attonito rimira: impallidisce;
      incomincia a tremar: gli cade il ferro;
      e dal ciglio, che tanto
      minaccioso parea, prorompe il pianto.

Aristea - Respiro.

Argene - Oh folle!

Aminta - Oh sconsigliato!

Aristea - Ed ora
      il genitor che fa?

Alcandro - Di lacci avvolto
      ha il colpevole innanzi.

Aminta - (Ah! si procuri
      di salvar l'infelice).

Megacle - E Licida che dice?

Alcandro - Alle richieste
      nulla risponde. E` reo di morte, e pare
      che nol sappia, o nol curi. Ognor piangendo
      il suo Megacle chiama: a tutti il chiede,
      lo vuol da tutti; e fra' suoi labbri, come
      altro non sappia dir, sempre ha quel nome.

Megacle - Più resister non posso. Al caro amico
      per pietà chi mi guida?

Aristea - Incauto! E quale
      sarebbe il tuo disegno? Il genitore
      sa che tu l'ingannasti;
      sa che Megacle sei; perdi te stesso
      presentandoti al re; non salvi altrui.

Megacle - Col mio principe insieme
      almen mi perderò.

Aristea - Senti. E non stimi
      consiglio assai miglior, che il padre offeso
      vada a placare io stessa?

Megacle - Ah! che di tanto
      lusingarmi non so.

Aristea - Sì, questo ancora
      per te si faccia.

Megacle - Oh generosa, oh grande,
      oh pietosa Aristea! Facciano i numi
      quell'alma bella in questa bella spoglia
      lungamente albergar. Ben lo diss'io,
      quando pria ti mirai, che tu non eri
      cosa mortal. Va, mio conforto...

Aristea - Ah basta;
      non fa d'uopo di tanto.
      Un sol de' guardi tuoi
      mi costringe a voler ciò che tu vuoi.
      Caro, son tua così,
      che per virtù d'amor
      i moti del tuo cor
      risento anch'io.
      Mi dolgo al tuo dolor;
      gioisco al tuo gioir;
      ed ogni tuo desir
      diventa il mio.



SCENA III

Megacle ed Argene.

Megacle - Deh secondate, o numi,
      la pietà d'Aristea. Chi sa se il padre
      però si placherà. Troppa ragione
      ha di punirlo, è ver; ma della figlia
      lo vincerà l'amore. E se nol vince?
      Oh Dio! Potessi almeno
      veder come l'ascolta. Argene, io voglio
      seguitarla da lungi.

Argene - Ah tanta cura
      non prender di costui. Vedi che 'l Cielo
      è stanco di soffrirlo. Al suo destino
      lascialo in abbandono.

Megacle - Lasciar l'amico! Ah così vil non sono.
      Lo seguitai felice
      quand'era il ciel sereno,
      alle tempeste in seno
      voglio seguirlo ancor.
      Come dell'oro il fuoco
      scopre le masse impure,
      scoprono le sventure
      de' falsi amici il cor.



SCENA IV

Argene, poi Aminta.

Argene - E pure a mio dispetto
      sento pietade anch'io. Tento sdegnarmi,
      ne ho ragion, lo vorrei; ma in mezzo all'ira,
      mentre il labbro minaccia, il cor sospira.
      Sarai debole, Argene,
      dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato!
      non sarà ver. Detesto
      la mia pietà. Mai più mirar non voglio
      quel volto ingannator. L'odio: mi piace
      di vederlo punir. Trafitto a morte
      se mi cadesse accanto,
      non verserei per lui stilla di pianto.

Aminta - Misero dove fuggo? Oh dì funesto!
      Oh Licida infelice!

Argene - E` forse estinto
      quel traditor?

Aminta - No, ma il sarà fra poco.

Argene - Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi
      molti compagni; onde giammai non sono
      poveri di soccorso.

Aminta - Or ti lusinghi:
      non v'è più che sperar. Contro di lui
      gridan le leggi, il popolo congiura,
      fremono i sacerdoti. Un sangue chiede
      l'offesa maestà. De' sagrifizi,
      che una colpa interrompe, è il delinquente
      vittima necessaria. Ha già deciso
      il pubblico consenso. Egli svenato
      fia su l'ara di Giove. Esser vi deve
      l'offeso re presente; e al sacerdote
      porgere il sacro acciaro.

Argene - E non potrebbe
      rivocarsi il decreto?

Aminta - E come? Il reo
      già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori
      io coronar gli vidi; e 'l vidi, oh Dio!
      incamminarsi al tempio. Ah! fors'è giunto:
      ah! forse adesso, Argene,
      la bipenne fatal gli apre le vene.

Argene - Ah no, povero prence!

Aminta - Che giova il pianto?

Argene - Ed Aristea non giunse?

Aminta - Giunse; ma nulla ottenne. Il re non vuole,
      o non può compiacerla.

Argene - E Megacle?

Aminta - Il meschino
      ne' custodi s'avvenne,
      che ne andavano in traccia. Or l'ascoltai
      chieder fra le catene
      di morir per l'amico: e, se non fosse
      ancor ei delinquente,
      ottenuto l'avria. Ma un reo per l'altro
      morir non può.

Argene - L'ha procurato almeno.
      Oh forte! Oh generoso! Ed io l'ascolto
      senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi
      l'amistà che l'amore? Ah quali io sento
      d'un'emula virtù stimoli al fianco!
      Sì, rendiamoci illustri. In fin che dura,
      parli il mondo di noi. Faccia il mio caso
      meraviglia e pietà: né si ritrovi
      nell'universo tutto
      chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.
      Fiamma ignota nell'alma mi scende:
      sento il nume; m'inspira, m'accende,
      di me stessa mi rende maggior.
      Ferri, bende, bipenni, ritorte,
      pallid'ombre, compagne di morte,
      già vi guardo, ma senza terror.



SCENA V

Aminta.

Aminta - Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde
      tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh Dio!
      senza Licida io vado? Io l'educai
      con sì lungo sudore: a regie fasce
      io l'innalzai da sconosciuta cuna;
      ed or potrei senz'esso
      partir così? No. Si ritorni al tempio:
      si vada incontro all'ira
      dell'oltraggiato re. Licida involva
      me ancor ne falli sui:
      si mora di dolor, ma accanto a lui.
      Son qual per mare ignoto
      naufrago passeggiero,
      già con la morte a nuoto
      ridotto a contrastar.
      Ora un sostegno ed ora
      perde una stella; al fine
      perde la speme ancora
      e s'abbandona al mar.



SCENA VI

Aspetto esteriore del gran tempio di Giove Olimpico, dal quale si scende per lunga e magnifica scala divisa in vari piani. Piazza innanzi al medesimo con ara ardente nel mezzo. Bosco all'intorno de' sacri ulivi silvestri, donde formavansi le corone per gli atleti vincitori.

Clistene che scende dal tempio, preceduto da numeroso popolo, da' suoi custodi, da Licida in bianca veste, coronato di fiori, da Alcandro e dal coro de' sacerdoti, de' quali alcuni portano sopra bacili d'oro gli strumenti del sagrifizio.

Coro - I tuoi strali terror de' mortali
      ah! sospendi, gran padre de' numi,
      ah! deponi, gran nume de' re.

Parte del coro - Fumi il tempio del sangue d'un empio,
      che oltraggiò con insano furore,
      sommo Giove, un'immago di te.

Coro - I tuoi strali terror de' mortali
      ah! sospendi, gran padre de' numi,
      ah! deponi, gran nume de' re.

Parte del coro - L'onde chete del pallido Lete
      l'empio varchi; ma il nostro timore
      ma il suo fallo portando con sé.

Coro - I tuoi strali terror de' mortali
      ah! sospendi, gran padre de' numi,
      ah! deponi, gran nume de' re.

Clistene - Giovane sventurato, ecco vicino
      de' tuoi miseri dì l'ultimo istante.
      Tanta pietade (e mi punisca Giove
      se adombro il ver) tanta pietà mi fai,
      che non oso mirarti. Il Ciel volesse
      che potess'io dissimular l'errore:
      ma non lo posso, o figlio. Io son custode
      della ragion del trono. Al braccio mio
      illesa altri la diede;
      e renderla degg'io
      illesa o vendicata a chi succede.
      Obbligo di chi regna
      necessario è così, come penoso,
      il dover con misura esser pietoso.
      Pur se nulla ti resta
      a desiar, fuor che la vita, esponi
      libero il tuo desire. Esserne io giuro
      fedele esecutor. Quanto ti piace,
      figlio, prescrivi; e chiudi i lumi in pace.

Licida - Padre, che ben di padre,
      non di giudice e re, que' detti sono,
      non merito perdono,
      non lo spero, nol chiedo, e nol vorrei.
      Afflisse i giorni miei
      di tal modo la sorte,
      ch'io la vita pavento, e non la morte.
      L'unico de' miei voti
      è il riveder l'amico
      pria di spirar. Già ch'ei rimase in vita,
      l'ultima grazia imploro
      d'abbracciarlo una volta, e lieto io moro.

Clistene - T'appagherò. Custodi,
      Megacle a me.

Alcandro - Signor, tu piangi! E quale
      eccessiva pietà l'alma t'ingombra?

Clistene - Alcandro, lo confesso,
      stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,
      la voce di costui nel cor mi desta
      un palpito improvviso,
      che lo risente in ogni fibra il sangue.
      Fra tutti i miei pensieri
      la cagion ne ricerco, e non la trovo.
      Che sarà, giusti dei, questo ch'io provo?
      Non so donde viene
      quel tenero affetto
      quel moto, che ignoto
      mi nasce nel petto;
      quel gel, che le vene
      scorrendo mi va.
      Nel seno a destarmi
      sì fieri contrasti
      non parmi che basti
      la sola pietà.



SCENA VII

Megacle fra le guardie, e detti.

Licida - Ah! vieni, illustre esempio
      di verace amistà: Megacle amato,
      caro Megacle, vieni.

Megacle - Ah qual ti trovo,
      povero prence!

Licida - Il rivederti in vita
      mi fa dolce la morte.

Megacle - E che mi giova
      una vita, che in vano
      voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,
      Licida, non andrai. Noi passeremo
      ombre amiche indivise il guado estremo.

Licida - O delle gioie mie, de' miei martiri,
      finché piacque al destin, dolce compagno,
      separarci convien. Poiché siam giunti
      agli ultimi momenti,
      quella destra fedel porgimi, e senti.
      Sia preghiera, o comando
      vivi; io bramo così. Pietoso amico
      chiudimi tu di propria mano i lumi;
      ricordati di me. Ritorna in Creta
      al padre mio... Povero padre! a questo
      preparato non sei colpo crudele.
      Deh tu l'istoria amara
      raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto
      reggi, assisti, consola;
      lo raccomando a te. Se piange, il pianto
      tu gli asciuga sul ciglio;
      e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio.

Megacle - Taci: mi fai morir.

Clistene - Non posso, Alcandro,
      resister più. Guarda que' volti: osserva
      que' replicati amplessi,
      que' teneri sospiri e que' confusi
      fra le lagrime alterne ultimi baci.
      Povera umanità!

Alcandro - Signor, trascorre
      l'ora permessa al sacrifizio.

Clistene - E` vero.
      Olà, sacri ministri,
      la vittima prendete. E voi, custodi,
      dall'amico infelice
      dividete colui.

Megacle - Barbari! Ah voi
      avete dal mio sen svelto il cor mio!

Licida - Ah dolce amico!

Megacle - Ah caro prence!

Licida e Megacle - Addio!


      CORO I tuoi strali terror de' mortali
      ah! sospendi, gran padre de' numi
      ah! deponi, gran nume de' re.
      
      (Nel tempo che si canta il coro, Licida va ad inginocchiarsi a piè dell'ara appresso al sacerdote. Il re prende la sacra scure, che gli vien presentata sopra un bacile da un de' ministri del tempio; e, nel porgerla al sacerdote canta i seguenti versi, accompagnati da grave sinfonia)
      
      
CLIST. O degli uomini padre e degli dei,
      onnipotente Giove,
      al cui cenno si move
      il mar, la terra, il ciel; di cui ripieno
      è l'universo, e dalla man di cui
      pende d'ogni cagione e d'ogni evento
      la connessa catena;
      questa, che a te si svena,
      sacra vittima accogli. Essa i funesti,
      che ti splendono in man, folgori arresti.



SCENA VIII

Argene, e detti.

Argene - Fermati, o re. Fermate,
      sacri ministri.

Clistene - Oh insano ardir! Non sai,
      ninfa, qual opra turbi?

Argene - Anzi più grata
      vengo a renderla a Giove. Una io vi reco
      vittima volontaria ed innocente,
      che ha valor, che ha desio
      di morir per quel reo.

Clistene - Qual è?

Argene - Son io.

Megacle - (Oh bella fede!)

Licida - (Oh mio rossor!)

Clistene - Dovresti
      saper che al debil sesso
      pel più forte morir non è permesso.

Argene - Ma il morir non si vieta
      per lo sposo a una sposa. In questa guisa
      so che al tessalo Admeto
      serbò la vita Alceste; e so che poi
      l'esempio suo divenne legge a noi.

Clistene - Che perciò? Sei tu forse
      di Licida consorte?

Argene - Ei me ne diede
      in pegno la sua destra e la sua fede.

Clistene - Licori, io, che t'ascolto,
      son più folle di te. D'un regio erede
      una vil pastorella
      dunque...

Argene - Né vil son io,
      né son Licori. Argene ho nome: in Creta
      chiara è del sangue mio la gloria antica:
      e, se giurommi fé, Licida il dica.

Clistene - Licida, parla.

Licida - (E` l'esser menzognero
      questa volta pietà). No, non è vero.

Argene - Come! E negar lo puoi? Volgiti, ingrato;
      riconosci i tuoi doni,
      se me non vuoi. L'aureo monile è questo,
      che nel punto funesto
      di giurarmi tua sposa
      ebbi da te. Ti risovvenga almeno
      che di tua man me ne adornasti il seno.

Licida - (Pur troppo è ver).

Argene - Guardalo, o re.

Clistene - Dinanzi
      mi si tolga costei.

Argene - Popoli, amici,
      sacri ministri, eterni dei, se pure
      n'è alcun presente al sacrifizio ingiusto,
      protesto innanzi a voi; giuro ch'io sono
      sposa a Licida, e voglio
      morir per lui: né... Principessa, ah! vieni;
      soccorrimi: non vuole
      udirmi il padre tuo.



SCENA IX

Aristea, e detti.

ARI. Credimi, o padre,
      è degna di pietà.

Clistene - Dunque volete
      ch'io mi riduca a delirar con voi?
      Parla; ma siano brevi i detti tuoi.

Argene - Parlino queste gemme,
      io tacerò. Van di tai fregi adorne
      in Elide le ninfe?

Clistene - Aimè, che miro!
      Alcandro riconosci
      questo monil?

Alcandro - Se il riconosco? E` quello
      che al collo avea, quando l'esposi all'onde,
      il tuo figlio bambin.

Clistene - Licida (oh Dio!
      tremo da capo a piè). Licida, sorgi,
      guarda: è ver che costei
      l'ebbe in dono da te?

Licida - Però non debbe
      morir per me. Fu la promessa occulta,
      non ebbe effetto; e col solenne rito
      l'imeneo non si strinse.

Clistene - Io chiedo solo
      se il dono è tuo.

Licida - Sì.

Clistene - Da qual man ti venne?

Licida - A me donollo Aminta.

Clistene - E questo Aminta
      chi è?

Licida - Quello a cui diede
      il genitor degli anni miei la cura.

Clistene - Dove sta?

Licida - Meco venne;
      meco in Elide è giunto.

Clistene - Questo Aminta si cerchi.

Argene - Eccolo appunto.



SCENA ULTIMA

Aminta, e detti.

Aminta - Ah, Licida...

Clistene - T'accheta.
      Rispondi, e non mentir. Questo monile
      donde avesti?

Aminta - Signor, da mano ignota,
      già scorse il quinto lustro
      ch'io l'ebbi in don.
      CLIST.Dov'eri allor?

Aminta - Là, dove
      in mar presso a Corinto
      sbocca il torbido Asopo.

Alcandro - (Ah! ch'io rinvengo
      delle note sembianze
      qualche traccia in quel volto. Io non m'inganno:
      certo egli è desso). Ah! d'un antico errore
      mio re, son reo. Deh mel perdona: io tutto
      fedelmente dirò.
      CLIST.Sorgi, favella.

Alcandro - Al mar, come imponesti,
      non esposi il bambin: pietà mi vinse.
      Costui straniero, ignoto
      mi venne innanzi, e gliel donai, sperando
      che in rimote contrade
      tratto l'avrebbe.

Clistene - E quel fanciullo, Aminta,
      dov'è? Che ne facesti?

Aminta - Io... (Quale arcano
      ho da scoprir!)
      CLIST.Tu impallidisci! Parla,
      empio; dì, che ne fu? Tacendo aggiungi
      all'antico delitto error novello.

Aminta - L'hai presente, o signor: Licida è quello.

Clistene - Come! non è di Creta
      Licida il prence?

Aminta - Il vero prence in fasce
      finì la vita. Io, ritornato appunto
      con lui bambino in Creta, al re dolente
      l'offersi in dono: ei dell'estinto in vece
      al trono l'educò per mio consiglio.

Clistene - Oh numi! ecco Filinto, ecco il mio figlio.

Aristea - Stelle!

Licida - Io tuo figlio?

Clistene - Sì. Tu mi nascesti
      gemello ad Aristea. Delfo m'impose
      d'esporti al mar bambino, un parricida
      minacciandomi in te.

Licida - Comprendo adesso
      l'orror che mi gelò, quando la mano
      sollevai per ferirti.

Clistene - Adesso intendo
      l'eccessiva pietà, che nel mirarti
      mi sentivo nel cor.

Aminta - Felice padre!

Alcandro - Oggi molti in un punto
      puoi render lieti.

Clistene - E lo desio. D'Argene
      Filinto il figlio mio,
      Megacle d'Aristea vorrei consorte;
      ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.

Megacle - Non è più reo, quando è tuo figlio.

Clistene - E` forse
      la libertà de' falli
      permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro
      valore a dimostrar, l'unico esempio
      esser degg'io di debolezza? Ah questo
      di me non oda il mondo. Olà, ministri,
      risvegliate su l'ara il sacro fuoco.
      Va, figlio, e mori. Anch'io morrò fra poco.

Aminta - Che giustizia inumana!

Alcandro - Che barbara virtù!

Megacle - Signor, t'arresta.
      Tu non puoi condannarlo. In Sicione
      sei re, non in Olimpia. E` scorso il giorno,
      a cui tu presiedesti. Il reo dipende
      dal pubblico giudizio.

Clistene - E ben s'ascolti
      dunque il pubblico voto. A prò del reo
      non prego, non comando, e non consiglio.
      
      CORO DI SACERDOTI E POPOLO
      Viva il figlio delinquente,
      perché in lui non sia punito
      l'innocente genitor.
      Né funesti il dì presente,
      né disturbi il sacro rito
      un'idea di tanto orror.
      
      

LICENZA
      
      
Ah no, l'augusto sguardo
      non rivolgere altrove, eccelsa Elisa.
      Ubbidirò. Tu ascolterai, se m'odi,
      (dura legge a compir!) voti e non lodi.
      Veggano ancor ben cento volte e cento
      i numerosi tuoi sudditi regni
      tornar sempre più chiaro
      questo giorno per te: per te, che sei
      la lor felicità, che nel tuo seno
      le più belle virtù, come in lor trono,
      l'una all'altra congiunte... Aimè! Perdono.
      Voti in mente io formai; ma dal mio labbro
      escon (per qual magia dir non saprei)
      trasformati in tua lode i voti miei.
      Errai: ma il mondo intero
      ho complice nel fallo; e (non sdegnarti)
      mi par bello l'error. L'anime grandi
      a vantaggio di tutti il Ciel produce.
      Nasconderne la luce
      perché, se agli altri il buon cammino insegna?
      Le lodi di chi regna
      sono scuola a chi serve. Il grande esempio
      innamora, corregge,
      persuade, ammaestra. Appresso al fonte
      tutti non sono: è ben ragion che alcuno
      disseti anche i lontani. Ah, non è reo
      chi, celebrando i pregi
      dell'anime reali,
      ubbidisce agli dei, giova a' mortali.
      Nube così profonda
      non può formarsi mai,
      che le tue glorie asconda,
      che ne trattenga il vol.
      Saria difficil meno
      torre alle stelle i rai,
      a' fulmini il baleno,
      la chiara luce al sol.

FINE DEL DRAMMA









Pietro Metastasio - Opera Omnia -  a cura deilVignettificio  -  Privacy & cookie  -   SITI AMICI: ilCorniglianese

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